“La Rondine” di Puccini vola al Carlo Felice di Genova. Interessante il lavoro del direttore Acquaviva, ottimo il cast. Qualche perplessità su scenografia e costumi

di FULVIO VENTURI

Programmata per la stagione scorsa in occasione del centenario della prima rappresentazione e  rimandata» all’anno teatrale corrente per motivi di bilancio, La Rondine è finalmente stata allestita al Carlo Felice di Genova, città dove tornava per la prima volta dal 1917. Poiché quest’opera rimane con Le Villi e Edgar la meno conosciuta di Giacomo Puccini, ripetiamo di seguito quanto abbiamo scritto in altre occasioni riguardo la sua genesi e la sua scarsa diffusione.

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“La Rondine” fu concepita in origine come operetta comico-sentimentale su commissione del CarlTheater di Vienna. Alla commissione fece seguito un ricco contratto con gli impresari Berté ed Eisenschitz.
Il soggetto della “Schwalbe”, come l’operetta avrebbe dovuto intitolarsi in tedesco (significa rondine), è il seguente: nella Parigi dei Caffè e dei Boulevards cara agli Impressionisti, Magda, amante del ricco banchiere Rambaldo, fugge dalla sua dorata prigione parigina per vivere in Costa Azzurra con un giovane provinciale, Ruggero, nel quale riconosce il vero amore. Rapidamente però si rende conto di non essere la donna giusta per il ragazzo e, complice un rinnovato interesse di Rambaldo per lei, decide di tornare a Parigi.

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Puccini dette inizio alla composizione nel 1912, poi fu preso da mille pensieri. Gli accordi internazionali fra Italia ed Austria periclitavano, lui era italiano, ma la sua operetta sarebbe stata austriaca. E perché proprio un’operetta quando non ne aveva mai composte? Inoltre era scontento del lavoro dei librettisti viennesi Heinz Reichert e Alfred Willner tanto da richiedere ad Eisner stesso frequenti interventi e cambiamenti di rotta. Con la grande crisi politica del 1914 Puccini risolse. L’operetta non si sarebbe più data a Vienna, ma sarebbe diventata un’opera italiana, pur mantenendo un versante comico accanto al suo consueto coté sentimentale, con una coppia „brillante che interagiva con una „seria“, e il lavoro letterario sarebbe stato compiuto da Giuseppe Adami e non dai librettisti austriaci.

Nacque così “La Rondine”, un uccellino che, abbandonato il nido viennese, si mise in volo per trovare ricetto a Monte Carlo. Vicino, dunque, ai luoghi dove il suo terzo atto dell’opera si ambientava e abbastanza distante da quelli in cui la guerra infuriava tragicamente.

Un peso leggero, certamente, ma anche una partitura elegantissima, non priva d’ironia (la citazione dalla straussiana Salome nel primo atto), ricca di eco pregresse (soprattutto da La Fanciulla del West), di ritmi danubiani (l’eredità operettistica), di ottimizzazioni pucciniane del lavoro di altri (sarebbe sciocco negare la somiglianza fra l’inizio del terzo atto della Rondine con quello di Fedora, più delle affinità con La Traviata alle quali tanti hanno fatto riferimento) e infine a sua volta materia da emulare (l’influenza su Erich Wolfgang Korngold e sulla sua Die Tote Stadt, testo fondamentale della decadenza viennese).

Il 27 marzo 1917, presso la Salle Garnier del Principato, sotto la guida di un giovane direttore emergente, Gino Marinuzzi, straordinario, e un cast eccellente formato da Gilda dalla Rizza, Tito Schipa (se alla prima italiana non avesse cantato Aureliano Pertile verrebbe da dire che non sia esistito Ruggero migliore), Ines Maria Ferraris e Carlo Dominici, l’opera andò in scena.
Il successo fu piuttosto flebile e quando “La Rondine” fu presentata in Italia (a Bologna, 5 giugno), l’accoglienza divenne ancora più tiepida, se non negativa. E così qualche mese più tardi, l’imprimatur milanese al Teatro dal Verme equivalse ad una stroncatura. In questo caso si tentò di addossare le colpe sulla protagonista Maria Farneti, grande e raffinata cantante, che se la prese fino al punto di abbandonare le scene a soli quarant’anni, ma i motivi dell’insuccesso non erano esecutivi.
Per diverse ragioni “La Rondine” aveva volato con un piombo nell’ala, quello era il conquibus.
Non opera, non operetta, lavoro spurio, irrisolto, si disse.
Per di più i timori di Puccini si avverarono e lo spiccato nazionalismo di quei giorni accusò “La Rondine” di essere l’opera “austriaca” di Puccini e di essa si parlò quasi di soppiatto per lungo tempo (a seguire la fotogallery dell’allestimento in scena al Carlo Felice di Genova).

Giudizi negativi che ci sembrano quanto mai riduttivi nei confronti di questa partitura senz’altro tenue, ma fine, delicata, sfumata nel tratteggio delle situazioni e dei personaggi, proprio come un pastello di Manet o di Degas. E malinconica, scritta come il vento scrive con le penne dell’ala, profumata dell’odore di salsedine del mare settembrino, di una valva di tellina racchiusa in una lettera d’amore.
Puccini fu cosciente di tutto ciò e dal modesto accoglimento riservato alla sua creatura ebbe inizio anche il rovello che attanagliò la parte finale della sua esistenza.

In breve tempo compì due revisioni dello spartito, e in un caso modificò anche ampiamente il finale, a nostro avviso senza giovamento, per poi tornare sui suoi passi e risistemare la partitura quasi in modo conforme alla stesura per la versione di Bologna. E con arguzie tutta toscana, quando poi si rese conto che per “La Rondine” era davvero dura conquistare un posto stabile in teatro, ebbe anche a confessare: “Tutte le rondini girano, la mia mi fa girare”.
Ma l’affetto del musicista per questa sua creatura fu autentico. Quando gli parve che l’opera avesse definitivamente interrotto il suo volo, Puccini fece realizzare da un orafo una piccola rondine d’oro e di smalto blu che portò attaccata all’orologio fino alla fine dei suoi giorni.
Per lungo tempo “La Rondine” uscì dalle scaffalature di Casa Sonzogno molto raramente.
Si ricorda un’altra bella versione monegasca diretta da De Sabata e cantata in francese nel 1925, una doviziosa produzione newyorkese con Gigli e la Bori della quale è rimasta ampia documentazione fotografica nel 1928, ma in Italia praticamente niente fino al 1958, quando per i cento anni della nascita di Puccini, “La Rondine” andò in scena al Teatro San Carlo di Napoli con una splendida Rosanna Carteri per protagonista.
Solo in tempi recenti, giustamente, ultimato il reinquadramento del lavoro e della personalità di Puccini, “La Rondine” è giunta ad essere riconosciuta forse come l’esempio più tangibile del tormento del suo autore.

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La produzione genovese verte sull’accurato lavoro di preparazione e sulla direzione musicale sicura di Giuseppe Acquaviva, che è anche il direttore artistico del Carlo Felice il quale ha fortemente voluto ricordare il centenario de “La Rondine” nel suo teatro. Direzione sicura, ma non priva di voli e di tenerezza, con bellissimi momenti nel finale del primo atto, nell’aurorale chiusa del secondo (con lo splendido “interno”: Nella trepida luce d’un mattin/ m’apparisti ricinta di rose) e in tutto il terzo, fino al commosso explicit. Una direzione equilibrata che coglie l’alternanza dei momenti brillanti con quelli pervasi dallo spleen pucciniano.

Acquaviva ha anche raccolto attorno a sé un cast di ottimo livello, dalla protagonista Elena Rossi, una Magda assorta, bella in scena, presente nei momenti più attesi, come le due arie del primo atto, e in tutta l’articolazione del personaggio. E come suggello della prestazione non dimenticheremo la nota perfetta, un la bemolle, sulla chiusura del sipario. Accanto a lei ha sfoggiato un nitido fraseggio il tenore Arturo Chacon Cruz, ed essendo la parte di Ruggero caratterizzata dal cosiddetto “canto di conversazione” non sapremmo far lui apprezzamento maggiore. Bene, però, puntiglioso e squillante anche nei non pochi acuti disseminati nella parte: quattro si bemolle e volendo un do nel solo brindisi, ovvero in cinque minuti scarsi di musica. Menzione a parte per il Prunier magnifico di Marius Brenciu, musicale, distinto, preciso e mai sopra le righe. Al fianco di siffatto professionista la Lisette di Giuliana Gianfaldoni è meno matura, ma la ragazza è pur sempre stata “al pezzo” per tutta la serata. E tratti di distinzione ha avuto il Rambaldo del fine Stefano Antonucci. Poi i giovani Giuseppe de Luca, Didier Pieri, Davide Mura, Francesca Benitez, Marta Leung, Marina Ogli, Roberto Conti hanno completato il cast. L’orchestra ha ben suonato e, il coro (maestro Franco Sebastiani) invece ha denunciato qualche limite di pulizia e qualità.

La parte visiva verteva su un impianto coloratissimo riguardo le scene e i costumi che è parso volutamente eliminare l‘eleganza. Occhieggiamenti alla rivista, ai modi della trasgressione, persino al carnevale di Viareggio (era un omaggio a Puccini?). In tutta sincerità ci sarebbe piaciuto qualcosa di più intonato alla raffinatezza de “La Rondine”. Regia di Giorgio Gallione, scene e costumi Guido Fiorato, luci Luciano Novelli, coreografie Giovanni di Cicco. Successo cordiale e applausi prolungati alla fine e anche a scena aperta, con qualche commento bizzarro nel pubblico. Uno per tutti: “quest‘opera sembra Butterfly”. Mah…

2 comments

  • Pregevole excursus storico anche nel linguaggio che, pur in una esposizione moderna sia nello stile sia negli interrogativi cui risponde, mantiene un’assonanza coi tempi di cui parla. Necessaria introduzione alla valutazione della rappresentazione in esame che, come sempre, si presenta priva di condiscendenze è, perciostesso, più che attendibile nelle valutazioni positive.

  • Salut Fulvio,
    Très beau ton explication, mais pourquoi ils ont mis une reproduction d’une statue de Niki de Saint Phalle ?
    Carlo

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