FESTIVAL PUCCINI. E in una notte di fine agosto “La Rondine” ha preso il volo. Jacquelyn Wagner (Magda) intensa nel terzo atto, Mirjam Mesak (Lisette) è stata la sorpresa della serata. Ottimo Didier Pieri (Prunier). La recensione di Fulvio Venturi

di FULVIO VENTURI

La Rondine è tornata a Torre del Lago come produzione finale del Festival Puccini 2022. Già in altre occasioni ho dato spazio alla genesi ed allo storico di quest’opera, forse la più tormentata del catalogo pucciniano e magari è il caso di farlo anche adesso. Gli appassionati della recensione tout-court, quella dove si danno i voti con i quali ci troviamo sempre in disaccordo, possono saltare completamente questa parte del mio scritto.

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Ottavo titolo su dodici totali del catalogo operistico di Giacomo Puccini, “La Rondine” è stata per tanto tempo misconosciuta ed esclusa da una comune circolazione teatrale. Su di essa pesavano alcuni pregiudizi, primo fra tutti quello di essere stata pensata come operetta e condotta a termine non senza difficoltà come opera. Poi quello di essere stata iniziata con un testo in tedesco in virtù di un contratto con il CarlTheater di Vienna e quindi terminata in italiano con un libretto di Giuseppe Adami dopo che l’Italia era scesa in guerra contro l’Austria. Infine quello di essere stata composta in un periodo di “stanca” da parte di Puccini, impegnato con la diffusione della precedente “Fanciulla del West” e già al lavoro per il successivo “Trittico”. Non fu risparmiato, in negativo, neppure il fatto che Puccini, per dare quest’opera in teatro, avesse abbandonato lo storico rapporto con l’editore Ricordi per passare al rivale Sonzogno. Rapidamente si etichettò “La Rondine” come un ibrido, un’opera sostanzialmente fallita alla quale non si riconoscevano le principali doti delle altre opere pucciniane, come la comunicativa, la “presa” sul pubblico e il fascino della melodia. Anzi si disse che “La Rondine” fosse quasi il ricettacolo di tutti i vezzi deteriori di Puccini, con il suo eccessivo sentimentalismo e un melodismo da quattro soldi. Il lento lavoro di ricerca sui vari momenti della partitura, sulla quale Puccini rimise le mani almeno tre volte in cinque anni e le frequenti riproposizioni teatrali degli ultimi trent’anni, hanno invece fatto in modo che “La Rondine” sia oggi amata e valutata come una degna sorella di tanti altri capolavori del suo autore. Quest’opera, composta tra il 1913 e il 1917, è in effetti figlia dei tormenti della guerra, dello spleen che attanagliava da qualche anno Puccini, ma reca anche altri inequivocabili segni del suo periodo, l’inquietudine del soggetto, le trasparenze quasi impalpabili dell’armonia ormai sempre più avviata verso un cammino d’incerta individuazione, e soprattutto un profumo flebile, ma ancora persistente di fiori appassiti. Come il profumo di un periodo che si stava sgretolando sotto il fuoco di guerra con lo stile che l’aveva contrassegnata, la “belle époque” ed il “Liberty”. Un cammino che tuttavia è parallelo quello della “Rondine” e del “Liberty”, entrambi a lungo guardati scetticamente, quasi indice di cattivo gusto, e poi reinquadrati nella genialità e nella qualità della loro stessa fattura.
Né meno “chic”, nel suo semplice intreccio, insieme perbenista e peccaminoso, caro a quella letteratura “da coltre” di Guido Da Verona e dei post-dannunziani, appare oggi la trama. Nella Parigi fin-du-siècle, Magda, amante del ricco banchiere Rambaldo, aspira in realtà ad un vero amore e, complici i versi di un poeta di società, Prunier, che le ricordano una passione lontana, decide di concedersi una serata di evasione recandosi, mascherata, al Bal Bullier, celebre ritrovo di Mont-Parnasse. Là incontra Ruggero, figlio di un amico di Rambaldo, e nasce l’amore. Magda decide di abbandonare Parigi e di vivere in un remoto angolo della Costa Azzurra con il giovane, ma è assalita dal rimorso d’aver nascosto a Ruggero il proprio passato e, quando il matrimonio sarebbe possibile, avverte che non potrà mai essere una moglie ideale per il suo uomo. Confessa dunque a Ruggero la verità e complice un nuovo interesse di Rambaldo per lei, decide di tornare nella prigione dorata di Parigi, riprendendo “il suo volo e la sua pena” di Rondine inquieta.

Come dicevamo, “La Rondine”, che rimane una delle opere meno note di Puccini, anzi, forse la meno diffusa insieme con le due opere della gioventù, “Le Villi” e “Edgar”, fu concepita in origine come operetta comico-sentimentale su commissione del CarlTheater di Vienna. Alla commissione seguì un ricco contratto con gli impresari Berté ed Eisenschitz, presso i quali Puccini era stato introdotto dal barone Angelo Eisner von Eisenhof. Non è un bisticcio, né uno scioglilingua fra il nome di Eisner von Eisenhof, scrittore, amico di Puccini e viveur della Vienna imperiale che comparirà anche fra i personaggi de “Gli ultimi giorni dell’umanità” (“Die Letzen Tagen der Menscheit”) di Karl Kraus, e quello dell’impresario testé citato, Eisenschitz.

Puccini dette inizio alla composizione nel 1912, poi fu preso da mille pensieri. Gli accordi internazionali fra Italia ed Austria periclitavano, lui era italiano, ma la sua operetta sarebbe stata austriaca. E perché proprio un’operetta quando non ne aveva mai composte? Inoltre era scontento del lavoro dei librettisti viennesi Heinz Reichert e Alfred Willner tanto da richiedere ad Eisner stesso frequenti interventi e cambiamenti di rotta. Con la grande crisi politica del 1914 Puccini risolse. L’operetta non si sarebbe più data a Vienna, ma sarebbe diventata un’opera italiana, pur mantenendo un versante comico accanto al suo consueto coté sentimentale, e il lavoro letterario sarebbe stato compiuto da Giuseppe Adami. Nacque così “La Rondine”, un uccellino che, abbandonato il nido viennese, si mise in volo per trovare ricetto a Monte Carlo. Vicino, dunque, ai luoghi dove il suo terzo atto si ambientava e abbastanza distante da quelli in cui la guerra infuriava tragicamente.

Il 27 marzo 1917, presso la Salle Garnier del Principato, sotto la guida di un giovane direttore emergente, Gino Marinuzzi, straordinario, e un cast eccellente formato da Gilda dalla Rizza, Tito Schipa (sarà poi esistito Ruggero migliore? Ne dubitiamo), Ines Maria Ferraris e Carlo Dominici, l’opera andò in scena.
Il successo fu piuttosto flebile e quando “La Rondine” fu presentata in Italia (a Bologna, 5 giugno), l’accoglienza fu ancora più tiepida, se non negativa. E così qualche mese più tardi l’imprimatur milanese al Teatro dal Verme equivalse ad una stroncatura. In questo caso si tentò di addossare le colpe sulla protagonista Maria Farneti, grande e raffinata cantante, che se la prese fino al punto di abbandonare le scene a soli quarant’anni, ma i motivi dell’insuccesso non erano esecutivi.
Per diverse ragioni “La Rondine” aveva volato con un piombo nell’ala, quello era il conquibus.
Non opera, non operetta, lavoro spurio, irrisolto, si disse.

Per di più lo spiccato nazionalismo di quei giorni accusò “La Rondine” di essere l’opera “austriaca” di Puccini e di essa si parlò quasi di soppiatto per lungo tempo.

Giudizi negativi che ci sembrano quanto mai riduttivi nei confronti di questa partitura senz’altro tenue, ma fine, delicata, sfumata nel tratteggio delle situazioni e dei personaggi, proprio come un pastello di Manet o di Degas. E malinconica, scritta come il vento scrive con le penne dell’ala, profumata dell’odore di salsedine del mare settembrino, di una valva di tellina racchiusa in una lettera d’amore.
Puccini fu cosciente di tutto ciò e dal modesto accoglimento riservato alla sua creatura ebbe inizio anche il rovello che attanagliò la parte finale della sua esistenza.

In breve tempo compì due revisioni dello spartito, e in un caso modificò anche ampiamente il finale, a nostro avviso senza giovamento, per poi tornare sui suoi passi e risistemare la partitura quasi in modo conforme alla stesura per la versione di Bologna. E con arguzie tutta toscana, quando poi si rese conto che per “La Rondine” era davvero dura conquistare un posto stabile in teatro, ebbe anche a confessare: “Tutte le rondini girano, la mia me li fa girare”.

Ma l’affetto del musicista per questa sua creatura fu autentico. Quando gli parve che l’opera avesse definitivamente interrotto il suo volo, Puccini fece realizzare da un orafo una piccola rondine d’oro e di smalto blu che portò attaccata all’orologio fino alla fine dei suoi giorni. Per lungo tempo “La Rondine” uscì dalle scaffalature di Casa Sonzogno molto raramente. Si ricorda un’altra bella versione monegasca diretta da De Sabata e cantata in francese nel 1925, una doviziosa produzione newyorkese con Gigli e la Bori della quale è rimasta ampia documentazione fotografica nel 1928, ma in Italia praticamente niente fino al 1958, quando per i cento anni della nascita di Puccini “La Rondine” andò in scena al Teatro San Carlo di Napoli con una splendida Rosanna Carteri per protagonista.
Solo in tempi recenti, giustamente, ultimata la revisione del lavoro e della personalità di Puccini, “La Rondine” è giunta ad essere riconosciuta forse come l’esempio più tangente del tormento del suo autore.

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La produzione di Torre del Lago (spettacolo del 27 agosto 2022) riprendeva l’allestimento del Maggio Musicale fiorentino, con regia, scene e costumi di Denis Krief. Allestimento essenziale, improntato al buon gusto e, nella parte registica, attento al carattere dei personaggi. Il direttore Robert Trevino è parso avvinto dallo spleen che anima “La Rondine”. Tempi lenti, languidi e in qualche parte enervati, tendenti alla messa in evidenza della raffinatezza endemica di questa partitura allorquando, anche all’aperto, niente si è perso dello scintillio di strumentini e percussioni e dell’anima tenue di questa opera sofferta.
Nei primi due atti il soprano Jacquelyn Wagner, Magda, pur cantando correttamente, ha evidenziato una voce di non particolare fascino timbrico, improntata più ad una trattenuta declamazione che all’involo lirico. Ma nel terzo atto la sua prestazione è molto cresciuta, fino a far giungere l’intima sofferenza della protagonista ormai intenta a riprendere “il suo volo e la sua pena”, con note sofferte, ben espresse, intense.
Bene il tenore Ivan Ayon Rivas, Ruggero, in una  parte difficile, tipica dello stile conversativo primo-novecentesco, ma capace d’inalberarsi a tratti in accensioni classicamente pucciniane.
Ottima la Lisette di Mirjam Mesak, spigliata, divertente e caratterizzata da una buona voce lirica e autentica sorpresa della serata (per chi non lo conosca) il tenore Didier Pieri, forse il più fine Prunier della mia lunga frequentazione teatrale. Voce bene impostata, pulita, sonora, in bella evidenza nelle strofe di Doretta e nel susseguente inciso con la protagonista che anticipa il finale dell’opera – “Forse come la rondine migrerete oltre il mare, verso un chiaro paese di sogno, verso il sole” – attore sempre presente e mai fuori misura.
Il sonoro Rambaldo di Vincenzo Neri ha capeggiato le parti di fianco, tutte bene assegnate, fra le quali ha spiccato il “Cantore” di Goar Faradzhian la cui quartina interna (“Nella trepida luce d’un mattin”) impreziosisce l’alba parigina sulla sala ormai deserta del Bal Bullier. Gli altri interpreti erano Zhihao Yin, Francesco Lucii, Davide Bettinello, Ginevra Gentile, Ayaka Kiwada, Eva Maria Ruggeri, Ivan Caminiti, Dario Zavatta, Shiori Kuroda, Valentina Pernozzoli, Taisiia Gureva. Coro diretto dal Maestro Roberto Ardigò.
Un bel successo.
Al termine minacciava di piovere e bagliori di tempesta si accendevano sul mar pisano, verso Livorno, in atmosfera di fine estate.
Impossibile non pensare a Giacomo Puccini seduto al piano in una notte come questa.