Nel 2020 (causa Covid) fu trasmesso in streaming e solo ora è arrivato in teatro. Otello al Maggio Musicale: applausi rispettosi, ma senza entusiasmo. Le voci, gli interpreti, la messa in scena nella recensione di Fulvio Venturi

di FULVIO VENTURI

Vi sono opere che occupano un posto privilegiato nell’immaginario degli appassionati e fra queste, forse la prima, è Otello. A tale riconoscimento concorrono diversi fattori, la bellezza monumentale dell’opera stessa, l’epos legato agli interpreti e qui mi si consenta di citarne alcuni, ovvero Del Monaco, Vickers, Cossutta, Domingo (chi come me li ha ascoltati dal vivo – nel bene e nel male, voci e personalità – sa cosa intendo), Renata Tebaldi, Mirella Freni, se non Gobbi, Taddei, o Cappuccilli, il valore espresso da taluni direttori, il titanismo e la complessità tecnica e psicologica della parte protagonistica. Fatto sta che all’idea di presenziare ad una rappresentazione di Otello, l’appassionato drizza le orecchie e, giusto o sbagliato che sia, lotta con la storia.

Ora fattori d’interesse attorno a questo Otello fiorentino (Maggio Musicale, ndr) ce n’erano, a partire dalla inedita coppia coniugale formata dal tenore armeno Arsen Soghomonian, un cantante in ascesa, e dal soprano Zarina Abaeva, russa. Entriamo in medias res. Soghomonian dispone di una voce ragionevolmente estesa, tale da consentirgli di affrontare con relativa sicurezza la temuta parte. Voce però piuttosto ingolata e senza particolare fascino timbrico. Fascino che almeno in questa occasione è parso sfuggire anche all’interprete. Non grida, non sbraita come talvolta è accaduto anche un tempo e tenta mezze voci, ma il personaggio non c’era. Abaeva ha qualcosa nella luminosità vocale che ricorda gli opulenti soprani lirici del bel tempo antico, il canto tuttavia non sempre è levigato e questo lo si è avvertito, dopo un “Già nella notte densa” normale, soprattutto nei due atti centrali. In crescendo, a suo favore, la Canzone del salice e l’Ave Maria. Quello che definiremmo terzo polo d’interesse della serata, il cantante più famoso della triade maggiore, Luca Salsi nei panni di Jago, ha evidenziato un fraseggio indubbiamente vario, ma anche affettato, più costruito che sentito e qualche risoluzione vocale un tantino appannata. Può bastare ad un allestimento che lotti con la storia? Direi di no.

Senza riserva alcuna invece la prestazione del coro di Lorenzo Fratini, che ha dominato in tutte le scene di sua pertinenza e contrassegnate da una qualità celestiale le voci bianche di Sara Matteucci, che ci hanno regalato una “marinaresca” di commovente purezza. Incisiva, ben registrata, motivata al pari dell’impegno richiesto l’orchestra, nitida negli archi, brillante negli ottoni, puntuale nei legni. Eccellente la banda nell’ampio frammento che nel terzo atto saluta l’ingresso dell’ambasciatore della Repubblica Veneta. In questo gran mare di suono il Maestro Mehta ha condotto il naviglio a sicuro approdo, a suo modo imperturbabile, olimpico. L’ampia distribuzione canora ha visto poi un promettente Joseph Dahdah nella tutt’altro che facile parte di Cassio, un sonoro Adriano Gramigni fin troppo giovanile come Lodovico, Francesco Pittari come Roderigo, ottimo, lo stesso aggettivo che conferisco al Montano di Eduardo Martínez. Buono l’Araldo di Matteo Mancini e generosa l’Emilia di Eleonora Filipponi.

Nata per andare in scena nel dicembre 2020, tarpata dal Covid, trasmessa in streaming all’epoca, questa produzione di Otello è arrivata adesso, complici le ristrettezze di bilancio, al pubblico teatrale. E non che le perplessità giunte allora dalla visione remota si siano dissopate, al contrario. La regia di Valerio Binasco, ripresa da João Carvalho Aboim, vive più sul programma di sala, dove lo stesso regista illustra le linee guida del lavoro, che sulle tavole del palcoscenico fiorentino, e traspone l’azione in “un luogo sotto assedio che attende l’arrivo del suo salvatore, il suo condottiero: Otello. Cipro, come Sarajevo ai tempi della guerra o come una città della Siria ai tempi d’oggi, aspetta trepidante l’arrivo del suo eroe che appartiene ad un altro popolo.” Scene di sapore post guerra atomica, soldati, klezmer band durante il “fuoco di gioia”, Cassio che si ristora con un te in controscena mentre Iago declama il “credo”, il letto di morte di Desdemona che appare dal deserto. Non sono certo cose che mi fanno gridare allo scandalo, ma altrettanto sicuramente mi fanno ponderare sulla loro reale necessità di esistere. Tant’è. Peggio, a mio avviso, la recitazione abbandonata a sé stessa e Iago, l’unico personaggio sul quale dei segni di regia si vedevano, consegnato ad atteggiamenti guitteschi. A questo si aggiungano le scene di Guido Fiorato che evocano un teatro di guerra e i costumi di Gianluca Falaschi che fanno pensare a truppe d’occupazione. Ma in quella Cipro di Shakespeare, Boito e Verdi non ci sono invasioni, essendo il nemico in fondo al mare, esattamente come ci dice il testo. Belle le luci di Pasquale Mari, ma l’insieme poco mi ha convinto.

Al termine applausi rispettosi senza punte di vero entusiasmo. (20 maggio 2023)