MAGGIO MUSICALE. In scena “Adriana Lecouvreur”: splendida direzione di Daniel Harding ben assecondato dall’Orchestra del Maggio. Bravissimo Nicola Alaimo, bene l’interpretazione di Maria José Siri. La recensione di Fulvio Venturi

di FULVIO VENTURI

Non si cerchino echi del passato in questa “Adriana” fiorentina (Maggio Musicale, ndr). Non si troverebbero, non ci sono. Nella mia lunga frequentazione con quest’opera, che data l’inizio nel 1969, non ho mai riscontrato un così forte segno di discontinuità con ciò che precede. 

Se c’è un’opera che è legata nella sua storia esecutiva alla figura della prima donna, questa è “Adriana Lecouvreur”, con tutta una galleria d’interpreti elette.

Diversamente da sempre, qui, protagonista non è la prima donna, ma il suono. Un suono asciutto, analitico, quasi secco, che sposta molto l’ottica di una partitura della quale spesso è stata riconosciuta l’eleganza, ma mai la capacità rivelatoria.

Il merito di questa visione assolutamente nuova e anticonvenzionale va riconosciuto al Maestro Daniel Harding che ha impostato sinfonicamente la sua lettura, puntando sul nitore generale della scrittura cileiana, con tempi per niente concessivi, ma non per questo stringati, con un afflato che non conosce sentimentalismo, ma non misconosce la passione. Assecondato perfettamente da un’Orchestra del Maggio in gran forma non ha lesinato sui decibel mantenendo tuttavia l’equilibrio sonoro fra le varie sezioni della compagine.

Ho sempre ritenuto “Adriana Lecouvreur”, con le sue evidenti reminiscenze dalla “Traviata” ed il suo garbato “falso Settecento”, figlia ultima di tutta una tradizione italiana e in particolare napoletana, poiché Francesco Cilea fu allievo esemplare del Conservatorio di San Pietro a Majella: da oggi comincerò a pensarla come un’opera ben inserita nella corrente europea del Novecento. 

Anche in palcoscenico i segni di questa  discontinuità, almeno in alcuni elementi, si sono mostrati con chiarezza. Maria José Siri, nelle vesti di Adriana, ovvero della prima donna per antonomasia, si è lasciata alle spalle tutte le esteriorità che spesso hanno accompagnato questo personaggio. Nessun atteggiamento plateale, nessun momento sopra le righe. Ha cantato bene, con attenzione alle note scritte, intonando persino un brano notoriamente declamato con il “Monologo di Fedra” che chiude il terzo atto, ha infuso applicazione e profuso passione. Unica riserva che mi sentirei di avanzare è quella legata ad una certa assenza di abbandono, ma questo forse si lega alla traslucida levigatezza direttoriale. 

Nicola Alaimo ha nella grana vocale, nella comunicativa e nella cordialità le caratteristiche dei Michonnet storici. Ma per descrivere ed inquadrare la sua prestazione bisogna dire che dopo uno splendido “monologo” del primo atto ed altre frasi che hanno lasciato il segno, come la bellissima “Noi siam povera gente, lasciam scherzare i grandi, non ci si lucra niente” nel secondo, ha firmato un quarto atto dove il canto – ora bisbigliato, ora accorato, ora stupendamente generoso, e l’interpretazione sono divenuti arte pura. Sentiti complimenti.

La cifra registica avrebbe potuto dialogare con tanta chiaritade orchestrale ed espressiva fino alla costruzione di uno spettacolo memorabile, ma non è stato così. Frederic Wake-Walker, ma si dovrebbe dire Jürgen Flimm perché il regista inglese a lui è subentrato rispettando un allestimento già definito, non si è distaccato da una tradizione un po’ piatta, con presenze macchiettistiche e l’imperversare di Pierrot e Arlecchini che ricordavano ora Verlaine, ora “Die tote Stadt”, senza essere né l’uno, né l’altra. Mi pare che l’anima di quest’opera stia da un’altra parte. Di più ho apprezzato l’idea di ambientare il quarto atto, ovvero il salotto di Adriana, in un camerino teatrale con la morte della protagonista che si configura in una solitaria uscita di scena. 

Nel solco di un modello francesizzante i costumi di Julia Katharina Berndt, con Michonnet che ricorda un gigantesco “Daumier” e gli abiti del quartetto degli attori della “Comédie Française” che guardano a Watteau e a Boucher ed anche al Picasso giovanile. Essenziali le scene di Polina Liefers, coreografie di Anna Olkhovaja e luci di Marco Faustini.

Il resto del cast presentava il Maurizio di Sassonia tutto sommato accettabile di Martin Muehle, peraltro trasformato in un vanitoso “Miles gloriosus” dalla regia, un buon Abate di Paolo Antognetti cui faceva specchio il Principe di Alessandro Spina, entrambi contrassegnati da un marcato macchiettismo, e l’ottimo quartetto degli attori formato da Davide Piva, Antonio Garés, Chiara Mogini, Valentina Corò. La torrenziale voce contraltile di Ksenia Dudnikova non si è distaccata da una certa genericità interpretativa. Buona la prestazione del Coro del Maggio diretto da Lorenzo Fratini e – ripeto – ottima quella dell’Orchestra. 

Applausi calorosissimi per Harding (tripudiato anche dall’orchestra), Siri, Alaimo e buone accoglienze per tutti da parte di un pubblico partecipe, ma comunque ben al di sotto delle cinquecento unità ammesse allo spettacolo dal regolamento anti-pandemia.