“La clemenza di Tito” di Mozart al Maggio musicale: ancora un vibrante successo per Federico Maria Sardelli. La recensione di Fulvio Venturi

di FULVIO VENTURI

Attorno alla Clemenza di Tito circolano ancora pareri contrastanti. Capolavoro sublime per alcuni, opera non completamente risolta per altri, palla mortale per altri ancora. Praticamente sconosciuta e certamente dimenticata fino a cinquant’anni fa (alla Scala giunse solo nel gennaio 1966 dal 1818 che non si faceva più, quando anche a Salisburgo e a Vienna si era vista poco) La Clemenza di Tito deve la sua diffusione a tre edizioni discografiche, nel 1967 quella diretta dall’ottimo e sfortunato Istvan Kertesz (morì annegato poco
più che quarantenne nel 1973), nel 1976 e 1979 quelle di Colin Davis e Karl Böhm. L’interesse di Muti dette poi a quest’opera la definitiva notorietà alla fine degli Anni Ottanta.

La Clemenza, tuttavia, fra i grandi titoli mozartiani, posto che le spetta di diritto tanta è la ricchezza della partitura e tante sono le anticipazioni che essa reca, è quello che più resta a margine del repertorio.

Al di là di ogni considerazione sulla diffusione tardiva, riteniamo che La Clemenza di Tito sia forse l’opera più complessa dal lato esecutivo di tutto
il tardo Settecento, con tre parti di alta difficoltà, Tito, Vitellia e Sesto, e una bellezza formale da salvaguardare, ma non da trasformare in algore espressivo.

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In questa produzione (al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, ndr) Antonio Poli è stato un protagonista giovane e giovanile, non troppo attanagliato dai dubbi di potere, ma più vòlto a mostrare certi lirismi anticipatori, ad esempio, di un Adolar nell‘Eurianthe di Weber, se non qualche proto-eroismo vocale. Ha buona voce e centri ombrati, caratteristiche che ci fanno vagheggiare di Gaetano Crivelli, mitico baritenore titolare dell‘accennata produzione scaligera del 1818. La vocalizzazione è da rendersi nitida e il trillo, specie di forza, tutto da costruire, ma il tempo gioca a suo favore. Di Roberta Mameli, Vitellia, ricorderemo la bella figura e l‘elegantissima azione scenica. Ma la sua organizzazione vocale, tipicamente barocca, è inadatta alla parte di Vitellia, terribile tanto tecnicamente che espressivamente. Un po‘ inerte il Sesto di Giuseppina Gridelli, personaggio che invece, qualora guidato dagli assalti degli affetti e dalle passioni del sangue, potrebbe assurgere al ruolo di effettivo protagonista dell‘opera. Al riguardo è da sottolineare che la parte fu scritta per il castrato soprano Domenico Bedini, allora secondo al solo Crescentini con il quale talvolta condivise le scritture “a perfetta vicenda”. Note migliori per Silvia Frigato e Loriana Castellano, Servilia e Annio, corrette dal lato vocale pur senza, anch‘esse, personalità dirompenti. Il Publio di Adriano Gramigni ha completato la distribuzione.

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La vera luce dello spettacolo è non di meno da individuarsi nella direzione di Federico Maria Sardelli (nella foto a destra sul palco a fine spettacolo), il quale da perfetto conoscitore della sonorità di medi e piccoli ensemble, e da filologo attento alla partitura, ha privilegiato le sezioni a fiato dell’orchestra del Maggio, e ha ottenuto un nitore quasi smilzo, ma veramente polito, dagli archi. Un gesto essenziale e chiarissimo unito ad una partecipazione emotiva comunque costante ha contribuito ad una restituzione in nulla manchevole della astrale bellezza di molti passi di questa mozartiana Clemenza. All‘ottima prestazione dell’orchestra, che ha suonato con strumenti di uso attuale, ha fatto specchio la qualità del coro diretto da Lorenzo Fratini. Regia non sempre leggibile di Willy Decker ripresa qui da Rebekka Stanzel in un allestimento sin troppo distaccato dell’Opéra National de Paris. Applausi scroscianti anche a scena aperta, talvolta sovradimensionati rispetto alla esecuzione vocale. Ma a teatro è meglio il consenso del dissenso. E poi Mozart è Mozart: gli applausi andavano anche e soprattutto a lui.

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