“Don Carlo” al Teatro del Maggio. La direzione di Daniele Gatti illumina ogni situazione e induce alla riflessione (al contrario della regia di Roberto Andò senza palpiti ed emozioni vere). Francesco Meli nel ruolo del titolo alterna sentimenti, suoni e vibrazioni. Bene il coro istruito da Lorenzo Fratini. La recensione di Fulvio Venturi

di FULVIO VENTURI

Non so quante siano le recite d’opera alle quali ho assistito da quel 27 novembre 1965 che segnò la mia prima, ma sono tante, né, sui due piedi quante le produzioni di Don Carlo(s). Molte, pure. Teatri grandi, i massimi, teatri piccoli, quelli della provincia aurea, Livorno e Pisa. Dal fastello della mirra emergono gli interpreti, che non citerò, e se dovessi farlo sarebbe un parterre de rois. Abbado, Schippers, Mehta fra i direttori, Visconti fra i registi.
Nessuna mai di tali produzioni mi ha lasciato uno sconcerto tale come questa fiorentina (al Teatro del Maggio).
Alla direzione di Daniele Gatti, dove ogni scena, ogni episodio, direi ogni nota invita alla riflessione, alla introspezione, all’approfondimento, fa da contraltare la regia di Roberto Andò che le riflessioni le appiattisce tutte. Mai un palpito, mai un’emozione vera, mai un interrogativo ben piazzato.

Così il cast, dove accanto ad un poetico Francesco Meli e ad una inappuntabile Eleonora Buratto trova un Mikhail Petrenko, Filippo II, ben al di sotto dei livelli di guardia, un Roman Burdenko che riscatta la sua prova solo nella morte di Posa ed Ekaterina Semenchuk, Eboli, che si salva a risico d’esperienza.

Il teatro, la cavea maggiore, si rinnovava dopo una chiusura lungotta con un palcoscenico di zecca, e l’apparato è parso ancora in rodaggio. Ne è uscita una produzione buia, offuscata. Non che Don Carlo sia opera solare, affatto, è anzi notturna, ma qui eravamo nell’anonimato. Persino l’acustica è parsa da registrare e la distanza fra palco e platea, siderale.

Adesso, si badi bene, cose belle questo Don Carlo ne ha. La direzione di Gatti è da collocare di diritto nel parterre de rois. Oltre ad illuminare (essa sì) ogni situazione, si evolve, muta col dramma. Dai blocchi sonori del primo Chiostro di San Giusto e Nostra Signora d’Atocha passa alla dolente lamentazione interna della camera regale, alle lugubri fanfare che annunciano il commiato terreno di Posa, fino al celestiale, sublime ultimo appuntamento di Carlo ed Elisabetta. Mai una situazione sonora si ripete. Indimenticabile il modo analitico con cui Gatti definisce il nervoso disegno degli archi che precede le subitanee entrate in scena del protagonista, la cupa tinta del duetto politico fra Filippo e Posa, rischiarata dalle speranze di quest’ultimo, la poesia, il senso di rimpianto che pervade la scena estrema.

E parlando di poesia dobbiamo necessariamente tornare su Francesco Meli. Il suo Carlo è tutto un’alternanza di sentimenti, un variare di suoni, un’incessante mutazione emotiva. Sale con leggerezza, vibra nella passione, compie prodezze tecniche cantando con una infinita gamma di colori fino al si bemolle acuto. Eleonora Buratto è una Elisabetta di Valois raccolta, regale, distinta nella sua formale compitezza. Eppure il suo personaggio ha palpiti, ha luce di suono, porta ancora dentro a  tratti quella gioventù lasciata nella foresta di Fontainebleau. Impossible stabilire il vertice qualitativo della prestazione di questi due magnifici cantanti, ma sicuramente i due duetti, il primo “Io vengo a domandar grazia alla mia regina”, il secondo “È dessa” nell’ultimo atto, li porteremo con noi a lungo.

E non basta: il coro di Lorenzo Fratini ha firmato un’altra ottima prova, segnatamente nelle voci maschili così presenti in quest’opera. Alexander Vinogradov è stato efficace come il Grande Inquisitore, ha fatto bene Joseph Dahdah nei non facili interventi dell’Araldo e del Conte di Lerma; bene i deputati fiamminghi.
Ottimo il gruppo dei figuranti e abbiamo riconosciuto una loro qualità ai costumi di Nanà Cecchi.
Quello che non ci è piaciuto lo abbiamo già detto e non è il caso d’insistere.