Sontuoso e virtuoso. Un grande plauso al verdiano Don Carlo allestito dal Comunale di Modena in coproduzione con Piacenza, Reggio Emilia e Rimini. Magnifici i costumi, bene la regia. Il carisma di Michele Pertusi nei panni di un perfetto Filippo II. La recensione di Fulvio Venturi

di FULVIO VENTURI

Un Don Carlo sontuoso. Non trovo un aggettivo diverso. Sontuoso, come si scriveva una volta. E virtuoso, come il teatro che lo ha allestito, il Comunale di Modena, e quelli che lo hanno coprodotto, Piacenza, Reggio Emilia e Rimini. Dunque un plauso alla dirigenza di questi teatri che attorno all’opera più complessa di Verdi riescono a raggiungere un livello produttivo molto alto, come non sempre realtà più paludate e più ricche sanno fare.

Il segreto di questa produzione è la chiarezza, la leggibilità. Magnifici e particolareggiati i costumi di Alessandro Ciammarughi, solido e non invadente l’allestimento firmato per la regia da Joseph Franconi-Lee e ancora da Ciammarughi per le scene. Come fare “tradizione” senza che essa appaia “restaurazione”. E in questa ottica si legge anche la scelta di proporre l’opera nella “versione Milano” in quattro atti, legata alle ormai storiche riproposizioni degli Anni Cinquanta del Novecento che di fatto riportarono all’attenzione un capolavoro che si trovava in itinere di oblio.
Il cast ha ruotato attorno alla figura ormai augusta di Michele Pertusi che, accanto alla proverbiale qualità vocale unisce adesso anche un carisma d’interprete da prendere nota, raffigurando un Filippo II pressoché perfetto. Per lui tributi ammirativi sia a scena aperta che a fine serata.
 A breve distanza da tale regale eccellenza collochiamo il Don Carlo di Piero Pretti, tenore che dispone di un registro acuto sicuro e squillante – non dimentichiamo che la parte di tenore più acuta di tutta la letteratura verdiana è proprio quella dell’Infante di Spagna, insieme con l’Arrigo dei Vespri Siciliani – doti comunicative spiccate e un gioco scenico convincente, requisiti indispensabili per quest’opera.

È vero che nel primo duetto con Elisabetta possa essere a lui mancato l’incanto sognante e sofferto della mezzavoce, del sussurro e, nel commiato finale, l’aerea sospensione elegiaca, ma Pretti ha risolto i passaggi più acuminati e perigliosi, quali la scena del giardino e dell’autodafé con esemplare naturalezza. Ernesto Petti ha riscattato con una magnifica morte di Posa condotta tutta a mezza voce una prestazione che è parsa impostata più sullo sfoggio vocale che su un’intima convinzione del signorile carattere del personaggio.
Questo per il terzetto principale maschile.
Teresa Romano, Eboli, ha messo in campo una vocalità doviziosa nella zona centrale, passione e calore, un leggero impaccio nelle agilità della Canzone del Velo e una certa fatica nelle puntate più impervie (non sono poche) delle scene centrali e nel Don Fatale (dono che è la bellezza muliebre del personaggio, non altro), ma ha confermato la favorevole impressione da lei ricevuta in recenti prove. Anna Pirozzi non è parsa a suo totale agio nella dolente parte di Elisabetta. Certo, la cantante napoletana dispone della opulenza vocale dovuta al personaggio, ma la sua prestazione è parsa perfettibile nel confronto con il regale ed offeso consorte.

Andrea Pellegrini è stato un ottimo Frate, cantando bene, con voce raccolta e rotonda l’aria del primo atto “Ei voleva regnare sul mondo” e risultando incisivo nel finale. Incisività che, peraltro, è nondimeno sfuggita al Grande Inquisitore di Ramaz Chikviladze. Ma, ripetiamo, la scelta del cast è stata eccellente.
Bene anche L’araldo reale (sempre temuto per la frase scoperta) e il Conte di Lerma di Andrea Galli, così come il Tebaldo e la voce dal Cielo di Michela Antenucci. Mali di stagione hanno decurtato il gruppo dei deputati fiamminghi e dei frati, ma il Coro Lirico di Modena, ben preparato dal maestro Giovanni Farina, ha cantato in modo inappuntabile. Rimane volutamente al termine della recensione il direttore Jordi Bernacer che ha optato per una lettura orchestrale sonora e solare di questa introversa e complessa partitura. Lettura che a tutta prima mi ha lasciato un po’ interdetto, ma che nel corso della serata ha trovato intensità e giusta calibratura, senza omettere che il direttore ha sempre tenuto bene in pugno il nutritissimo palcoscenico. Orchestra Toscanini al suo meglio.
Aurea, insostituibile, “provincia” nel senso più alto del termine.
Da Modena, adesso, attendiamo speranzosi Otello.

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