Maggio Musicale Fiorentino. Smagliante, precisa, attenta ai dettagli la direzione di James Conlon sul podio del verdiano “Ernani”. Voce chiara e robusta per il personaggio del titolo interpretato da Francesco Meli. La recensione di Fulvio Venturi
di FULVIO VENTURI
Dare fuoco alla polveri. Questo è il pensiero che per tanti anni ha animato la poetica esecutiva di Ernani, inteso quale proto-opera degli Anni di Galera verdiani. Sotto questo profilo l’attuale Ernani fiorentino (Teatro del Maggio Musicale, repliche il 18 novembre 2022 alle ore 20 e il 20 alle ore 15.30) è dunque insolito.
Non che James Conlon sia infedele a quel dettame di “fuoco, azione, brevità” che proprio Verdi prescrisse per questa sua opera. Anzi, ad esso è fedelissimo, non essendo la sua lettura priva di forza, nervi, speditezza, chiarezza di narrazione, ma a tutto questo aggiunge, anche in collegamento ideale con Victor Hugo, autore dell’ur-text elaborato da Francesco Maria Piave per il libretto, eleganza e forbitezza della parola. E questo, in materia di Ernani, raramente si sente. Una direzione dunque smagliante, guidata da un gesto arioso e preciso, attenta ai dettagli e alla qualità del suono, ricca d’immagini senza scadere mai nel fantasioso, analitica nei passi concertati ove si può notare il particolare non perdendo tuttavia l’assieme. Questo magnifico direttore americano, che si fa notare tanto per il valore quanto per l’ecletticità distintiva dei grandi (indimenticabile quel lancinante Zwerg zemlinskiano del 2004) ha poi evidenziato, anche in una partitura avara di passi virtuosistici, la splendida condizione dell’orchestra e del coro del Maggio, e il connubio con un altro fantastico musicista, il maestro Lorenzo Fratini che dirige la compagine corale.
Quindi, su uno stesso livello qualitativo si è collocato l’Ernani di Francesco Meli. Voce chiara e robusta, sonora sempre, capacità alata di colorire, sfumare, destrezza nel trasmettere quello che l’interpretazione comanda. Va da sé che certi acuti siano più larghi che squillanti, unico appunto rivolgibile al tenore genovese. Questa è una sua caratteristica, prendere o lasciare. Lo accettiamo in toto: il suo Ernani è insieme un ribelle, un nobile, un innamorato e anche un poeta. Dunque un Ernani esemplare, lo dico con quel pride da vecchia ciabatta teatrale – io – che può vantare testimonianza diretta sulla parte di eminenti cantori quali Del Monaco, Corelli, Bergonzi e anche Labò.
Così l’Ernani fiorentino è in cassaforte. Vorremmo poter dire che il resto della distribuzione canora era agli stessi livelli, ma non è così. Roberto Frontali, Don Carlo, ha esternato fatiche ed impacci nell’arduo Vieni meco sol di rose e nel terzo atto. Vitalij Kowaljow, Silva, non ha espresso molto altro che un considerevole volume di voce. María José Siri, che collezionava una nuova presenza al Teatro del Maggio, ha fatto registrare agilità non perfettamente sgranate accanto a generosità e passione. Ma il soprano drammatico d’agilità è altra cosa. Non entusiasmante neppure la parte visiva con una regia tranquillissima di Leo Muscato, le scene di Federica Parolini, le luci di Alessandro Verazzi e i costumi di Silvia Aymonino che banalmente mettono in campo gli Scharfschützen di Francesco Giuseppe al posto degli archibugieri di Carlo V per l’ennesima trasposizione temporale.
Fa strano quando l’avanguardia diventa accademia.
Il duo Conlon-Meli, nondimeno, vale il viaggio sia pure sotto una pioggia torrenziale.
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