LE MASCHERE. Il Mascagni (quasi) sconosciuto per una messa in scena che convince ed entusiasma (con un vero ‘colpo’ di teatro). Bravi i cantanti, bene il coro, passionale Mario Menicagli direttore d’orchestra. Interessante e ben riuscita “operazione di recupero” di un’opera che ha avuto alterne fortune, ma che merita i migliori palcoscenici. La recensione di Fulvio Venturi.

di FULVIO VENTURI

Indubbiamente v’è un mistero attorno alle opere oltre Cavalleria di Pietro Mascagni e Le Maschere ne sono l’emblema.

Nello specifico di quest’opera la storia è nota, ma non tutta. Fiasco multiplo alla prima rappresentazione in contemporanea presso sette teatri nel 1901, una serie di reiterate revisioni a partire dal 1902, una felice circolazione fra il 1905 e il 1911, successi memorabili fra il 1930 e il 1940 non solo per le capacità trascinatorie di Mascagni (un direttore della valenza di Marinuzzi ne fu estimatore), nuova vita nel decennio 1955/65 auspice Gianandrea Gavazzeni con altri illustri colleghi come Bruno Bartoletti e Franco Capuana. Poi l’interesse di Gianluigi Gelmetti, ma non più di qualche sparuta produzione livornese (ogni venti anni: 1963, 1983, 2001 e la presente). Né si può dire che attorno a Le Maschere sia mancata l’attenzione musicologica, coagulatasi con Gavazzeni stesso, Gelmetti, Alessandro Rizzacasa e altri che evito di nominare per eludere l’autoreferenzialità.

Quest’opera, Le Maschere, piace; piace L’amico Fritz, piace Iris; Guglielmo Ratcliff e Isabeau riscuotono consensi all’estero, Il piccolo Marat è un bel monolite che fa riflettere.

Ma in Italia di fronte all’altro Mascagni, a quello che esula da Cavalleria rusticana, ancora si arriccia il nasino. Non uno straccio di teatro ha voluto coprodurre queste Maschere insieme a Livorno e solo la Fondazione per il Carnevale di Viareggio ha fornito una collaborazione fattiva.

Eppure lo spettacolo è eccellente nella parte concettuale e visiva per l’acuto lavoro del duo registico composto da Ugo Giacomazzi e Luigi Di Gangi (con Miriam Cossu in appoggio e Michele Rombolini datore luci) che ha saputo trasformare l’azione in un raffinato notturno, ove la tinta lunare si addice particolarmente a certi malinconici momenti della partitura, quali il duetto degli innamorati, la “pavana” e lo spettrale canto delle maschere a Rosaura. Poi le prescritte gags tutte trattate con mano leggera, con conoscenza dei tempi teatrali e nel rispetto dell’idea primigenia di Illica e Mascagni che era quella tutta volta a far rivivere un canovaccio della Commedia dell’Arte. Quando le cose invece non siano state scritte neppure dagli autori, come ad esempio nella parabasi dello spettacolo, Di Gangi e Giacomazzi si sono prodotti in un vero colpo di teatro, fingendo addirittura d’interrompere una rappresentazione di Cavalleria rusticana con tanto di “siciliana” asso pigliatutto della produzione mascagnana, per consentire alle Maschere di riprendere il loro spazio teatrale. 

Un bel servizio alla musica di Mascagni nella sua interezza, senza dubbio.

Il cast, frutto di lunghe tornate di audizioni, è superlativo. In qualche modo tutto ruota attorno alla figura di Tartaglia, impersonato da un bravissimo Massimo Cavalletti che mette la propria esperienza, il proprio valore interpretativo, una notevole vis comica al servizio prima di Giocadio nella parabasi, quindi del balbuziente famiglio di Pantalone. E che sillabati rapidi e puliti, virtuosistici e insospettati, e che note piene. Riconoscere il suo bel timbro fra le sessanta e passa voci dei concertati è stato un piacere assoluto.

Matteo Falcier ha dispiegato il suo purissimo timbro tenorile tratteggiando un Florindo perfetto, ricco di squillo, di passione e di languore. Min Kim, vincitore l’anno passato del Concorso per voci mascagnane, ha lasciato una grande impressione per la faciltà vocale e lo stupefacente à plomb con la quale risolve il personaggio del Capitan Spavento, sorta di caricaturale titano, parte che storicamente è stata appannaggio di autentici fuoriclasse della corda baritonale quali Carlo Galeffi, Benvenuto Franci e Apollo Granforte. Didier Pieri ha stilizzato un Arlecchino elegante ed interiore, aereo e lunare, picassiano, tutto fondato sull’articolazione alchemica della parola tanto da far diventare il personaggio affidatogli un archetipo di quella vocalità novecentesca che ritroveremo in Ravel, Falla e Stravinsky. Infatti Le Maschere è opera di brucianti anticipazioni, dal metateatro al finto Settecento.

Più carnale il Brighella di Marco Miglietta, caratterizzato da una sonora vocalità di tenore lirico, piena e piacevole nel disimpegno di una zona acuta frequente e scoperta. Ma anche in lui si è notata una capacità nello smorzare il suono, nel compenetrare la poetica lunare dello spettacolo. Ottima la Rosaura di Silvia Pantani, altra toscanissima interprete al pari di Cavalletti e Pieri, puntuale, precisa, buona cantante, deliziosa nella figura scenica e commovente nei passi obbligati della sua parte, ovvero l’aria della lettera, il duetto degli innamorati e lo struggente quartetto “Signor grande, illustrissimo”. Rachele Barchi, pressoché debuttante, è stata una Colombina disinvolta, maliziosa e ironica, dotata di una notevole verve in scena e di una voce fresca e brillante. Il Dottor Graziano, che apre e chiude l’opera, è stato interpretato con forbita proprietà di linguaggio musicale e senza difficoltà da Giacomo Medici e Vladimir Alexandovic, Pantalone, ha fornito un imprescindibile contributo nei concertati e nelle scene d’assieme unito ad una notevole presenta scenica. Il coro (della Fondazione Goldoni in questo caso) decimo protagonista dell’opera, voce del popolo ed anima delle maschere, contrassegnato qui non solo da pienezza di suono, ma anche e soprattutto da difficoltà tecnica e musicale, è stato preparato minuziosamente e con perizia da Maurizio Preziosi. Il tenore e oboista Stefano Cresci, infine, ha intonato la siciliana interrotta nella parabasi. Tutti, ma proprio tutti, in teatro e negli uffici della Fondazione Goldoni, hanno dato un contributo determinante alla riuscita dello spettacolo.

Deus-ex-machina di questa felice operazione è stato Mario Menicagli, direttore amministrativo della Fondazione Goldoni e in questo caso direttore d’orchestra. Certo, le scelte sono state condivise con la direzione artistica di Emanuele Gamba, il cast definito con un pool di persone, ma Menicagli ha voluto questa riproposta sulla quale non si scommetteva un dollaro bucato più di ogni altro. Inoltre ha diretto con entusiasmo, diremmo con dedizione, l’orchestra della Fondazione Goldoni (violino di spalla, Fulvio Puccinelli) in una partitura tutta slanci e passioni, ma sorretta da razionalità ed equilibrio.

Nella seconda rappresentazione Valentina Corò e Irene Bonvicini hanno sostenuto le parti di Rosaura e Colombina. La prima, anch’essa premiata dal concorso per voci mascagnane dello scorso anno, dispone di uno strumento potente e smaltato che fa pensare ai soprani drammatici (Poli Randacio, Caniglia) che Mascagni prediligeva. La seconda ha verve ed eleganza. 

Teatro pressoché esaurito in entrambe le serate. 

(La foto sopra il titolo è di Trifiletti-Bizzi).

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  • Come sempre Fulvio Venturi riesce ad entusiasmare con le sue recensioni. Non si può far altro che unirsi a lui nello stupore derivante da un inspiegabile ostracismo verso la produzione mascagnana successiva a “cavalleria rusticana”. Chi non avesse mai assistito o ascoltato in dischi”Le Maschere” si sarà entusiasmato per una gioiosa e trascinante rappresentazione teatrale; chi invece conosceva già quest’opera avrà avuto modo di godere della musica nel suo insieme e entusiasmarsi per le numerose melodie che accompagnano ogni scena traendone grande piacere e diletto.

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