La Wally incanta Modena, lunghi applausi da parte del pubblico del Teatro Pavarotti

di FULVIO VENTURI –

Dopo essere andata in scena a Piacenza, La Wally del lucchese Catalani è stata rappresentata a Modena con gran successo la sera di venerdì 24 febbraio. —

 

La Wally è un’opera molto particolare. Alfredo Catalani iniziò a lavorare alla sua composizione nella primavera 1888 insieme a Luigi Illica. Il soggetto prescelto, sottoposto alla attenzione di Catalani dalla editrice Giovannina Lucca, proveniva da un breve romanzo di Whilelmine von Hillern, “Die Geier-Wally. Eine Geschicte von Tyrolen Alpen”, uscito nel 1875, tradotto in otto lingue fra cui l’italiano (in Italia era uscito a puntate sulla Perseveranza) e poi, seguendo la moda toccata ad altri fortunati lavori letterari, trasformato dalla stessa autrice in una non meno bene accolta pièce teatrale. Un Heimatroman, un romanzo popolare, localistico, il cui plot risaliva ad un aneddoto che riguardava la pittrice Anne Stainer Knittel, raccolto nel 1870 da Whilelmine von Hillern a Innsbruck. All’età di diciassette anni la Stainer Knittel aveva estratto un nido d’aquila da una parete di roccia, pericolosa operazione alla quale in genere accudivano gli uomini in difesa delle pastorizie. Da questo fatto reale, nel romanzo, la protagonista (di nome Walburga, ridotto in Wally), ripudiate le convenzioni femminili, trascorreva la giovinezza nella natura vivendo in connubio con il paesaggio montano e gli animali selvaggi.

Luigi Illica arricchì il plot con l’inserimento di un amore romantico ed un finale tragico e nacque così il libretto de La Wally, alla cui stesura la Hillern medesima non fu estranea.

Carlo Gatti, l’autorevole biografo catalaniano, riferì che l’opera fu approntata in pochi mesi e compiuta nella primavera 1891. Acquistata la partitura da Ricordi, e destinata per la prima rappresentazione alla stagione scaligera 1891/92, nel successivo mese di luglio Alfredo Catalani si sottopose ad un lungo viaggio a Monaco di Baviera in compagnia del pittore Adolf Hohenstein per preparare i bozzetti di scena e i “figurini” per La Wally, e per trattare con Whilelmine von Hillern le condizioni dei diritti d’autore a lei spettanti.

Da Monaco, dove furono ospiti della scrittrice per dieci giorni, Catalani e Hohenstein si trasferirono a Bayreuth per assistere ad una rappresentazione di Parsifal, e quindi in Tirolo, a Sœlden, nella valle d’Œtz, ovvero nei luoghi di Wally, per ritrarre dal vero costumi e paesaggi.

Nel dicembre 1891 iniziarono le prove alla Scala. Quando la produzione giunse agli “assieme” fra i cantanti, l’orchestra e la messa in scena, Catalani, sino ad allora sempre presente, cadde ammalato. Febbre, tosse, sangue. Non che fosse la prima volta, anzi. La tisi lentamente lo stava uccidendo, così come aveva ucciso suo padre e i suoi fratelli, con continue emottisi ed otorragie. Spenta alla meglio la febbre Catalani si rialzò, tornò in teatro per compiere il suo dovere e riprese ad istruire i cantanti e il direttore Edoardo Mascheroni. L’atmosfera era fatalmente segnata, come la sorte di Catalani.

In questo clima spettrale La Wally andò in scena il 20 gennaio 1892. Si diceva che l’opera nasceva morta e non perché a Milano era appena trascorsa la stagione “nera e scapigliata” di scrittori mortuari come Emilio Praga, Vittorio Imbriani, o Iginio Tarchetti. Si alludeva invece alle condizioni fisiche di Catalani. Qualcuno addirittura intonava il De profundis.
La sera della prima la Scala rigurgitava di pubblico. Catalani, anche se non godeva delle simpatie di tutti e men che meno di Verdi, a Milano era conosciuto. Fuori era freddo, ma in teatro faceva caldo, In piccionaia si soffocava.
Il sipario si sollevò sulle scene di Hohenstein che riproducevano come vederle le rupi d’Oetz, le selve, le vette del Murzoll e del Similaun. La musica di Catalani fluì sull’amore di Wally e Hagenbach, descrisse il crepuscolo alpino, s’inerpicò su per i ghiacciai, danzò con la gente Soelden. Era scorrevole, come colori aveva i grigi dei freddi invernali, i bianchi azzurrini dei candori nivali, i rossi della passione e del sangue. I due preludi, uno al terzo, l’altro al quarto atto, offrivano visioni d’inquieta contemplazione, avevano il sapore della morte.

Alla fine fu un successo quasi inaspettato, tanti applausi, grida festose, molte chiamate al proscenio per tutti.

Nelle critiche che seguirono la première, qualcuno scrisse che La Wally non marcava un punto d’arrivo per il suo autore, ma di partenza, poiché le opere di Catalani che l’avevano preceduta, da Dejanice a Loreley, avevano progressivamente preparato la sua venuta. E siamo d’accordo, ma bisogna dire che il tratto fu brevissimo poiché il percorso appena iniziato si arrestò poco dopo e il 7 agosto 1893 Alfredo Catalani scese nella tomba a soli 39 anni.

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Questa lunga introduzione ci è necessaria per dire che La Wally non sia opera normalmente bella o brutta, ma che, rarissimo caso nell’intero panorama operistico (facciamo salvo Antar di Gabriel Dupont), il senso di morte che la pervade sia avvertibile senza il ricorso alla simbologia. Non ci vuole molto a leggere il preludio al terzo atto come una nenia funebre, o il lento incedere del quarto fra i ghiacci del Murzoll la desolata preparazione alla catarsi finale.
Sotto questo profilo l’impianto scenico dello spettacolo, regia di Nicola Berloffa, scene di Fabio Cherstich, costumi di Valeria Donata Bettella (nella foto il Teatro Pavarotti di Modena), è parso sin troppo improntato al vero con qualche tratto persino emendabile come l’abbondanza di boccali, fucili da caccia e cappelli alla tirolese.
Sul piano musicale il giovane direttore Francesco Ivan Ciampa ha duramente lavorato con l’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna per mantenere i tratti di una scrittura musicale virtuosistica e stabilire il giusto pathos con il palcoscenico. Buona la prestazione della protagonista Saioa Hernandez alle prese con una parte spossante e legata nella memoria a paragoni impossibili da sostenere come quelli con Renata Tebaldi, Magda Olivero e Raina Kabaivanska che interpretarono quest’opera. Ha fatto il paio con lei il tenore Zoran Todorovich, dotato di una voce sonora e squillante, che si è mosso con sicurezza fra i declamati di Hagenbach. Ottimo Claudio Sgura nella difficilissima parte di Gellner, il cattivo per amore, personaggio che si ricollega tanto ai “vilains” di stampo ottocentesco quanto ad un certo lirismo post-romantico dalla melodia spiegata. Molto efficace, e distinta negli atteggiamenti scenici Carlotta Vichi nella parte di Afra. Note complessivamente positive anche per Serena Gamberoni, con qualche leggero impaccio nella canzone dell’edelweiss, “un jödler lento, soave come un bacio”, ma con elegante efficacia nei fraseggi del terzo e del quarto atto. I due bassi Giovanni Battista Parodi, Stromminger, e Mattia Denti, Il Pedone di Schnals, completavano il cast dei solisti. Il Coro del Teatro Municipale di Piacenza, diretto da Corrado Casati, ottimo nella sezione tenorile, ha fatto segnare splendidi momenti nel corso della serata come i due magnifici concertati del secondo atto, “già il canto fervido ecco s’intona”, e del terzo, “Ave Maria, gratis plena”.
Successo franco, nettissimo, per tutti, con lunghi applausi alla fine (a corredo dell’articolo alcune foto di scena dal sito del modenese Teatro Comunale Pavarotti, ndr) ai quali uniamo il nostro particolare per Cristina Ferrari, direttrice artistica del Teatro di Piacenza, che ha lanciato l’idea di riproporre l’opera di Catalani assente dai palcoscenici italiani dal 1993, e per i suoi colleghi di Modena, Reggio Emilia e Lucca che l’hanno condivisa e supportata.