“La forza del destino”, un capolavoro in scena al Maggio Musicale con la direzione di Zubin Mehta. Saioa Hernandez è Leonora, Nicola Alaimo uno straordinario Fra Melitone. La recensione di Fulvio Venturi

di FULVIO VENTURI
Un concetto è passato chiaramente da questa produzione (Maggio Musicale Fiorentino, nda). Da qualunque parte la si prenda, La Forza del Destino è un capolavoro. Metti una regia e un direttore che raccontano due storie diverse e non sempre confluenti, metti un cast dove il migliore è forse Melitone, il concetto non cambia: La Forza del Destino è un capolavoro. Carlus Pedrissa con La Fura dels Baus (scene Roland Olbeter, light e video designer Franc Aleu) ambienta l’opera in uno spazio temporale che va dal 1759 al 3333. Poco importa, ad esempio, se la battaglia di Velletri, episodio della Guerra di Successione austriaca, che vide il Regno di Napoli con la Spagna da una parte e l’Austria dall’altra, centrale nella trama dell’opera, fu combattuta nell’agosto 1744, o se nessuno di noi arriverà mai fino al 3333.
Per quanto inficiata da costumi senza alcun fascino (Chu Oroz) qualche momento interessante la regia lo avrebbe pur avuto e mi riferisco alla scena della vestizione ed al momento in cui Leonora, uscita dallo speco del romitaggio, è come investita alle spalle da una luce insostenibile che ci ha ricordato i momenti migliori dei divisionisti italiani (magari la citazione che può andare dal Sole di Pellizza da Volpedo ai Pozzi di Benvenuto Benvenuti ce l’ho vista solo io). Non mi ha convinto in generale lo spazialismo della messa in scena che termina con una glaciazione a seguire una quarta guerra mondiale combattuta con sassi e bastoni, secondo un famoso aforisma einsteiniano.
La Forza è a mio avviso un romanzo popolare composto da quadri nei quali l’epica convive con con la fatalità. Se si alterano questi due fattori il castello cade. Senza contare che nel passo fatale de “le minacce, i i fieri accenti” veder duellare Don Carlo e Don Alvaro a colpi di clava aveva un più comico che tragico.
A questa farragine scenica faceva riscontro una lettura chiara e per niente sperimentale di Zubin Mehta. Una sinfonia da incisione, poi una visione più lirica che drammatica, su tempi prevalentemente diluiti. Che fosse il braccio o la volontà a produrre il lento incedere della narrazione verdiana, non è dato sapere, così come mi sono anche interrogato sulla effettiva necessità di ancora attuare interventi, quali spostamenti o piccoli tagli, sul corpo della augusta partitura.
Al centro si è dibattuto il cast, nel quale ha spiccato la Leonora ben cantata eppure solida di Saioa Hernandez e lo straordinario Fra Melitone di Nicola Alaimo. Ma il Padre Guardiano di Ferruccio Furlanetto non si è elevato oltre la statura di un nobile fraseggio tanto è ormai evidente l’usura dell’organo vocale, il Don Alvaro di Roberto Aronica è parso intimorito ora dai tempi lenti di Mehta, ora soprattutto dalla tessitura viperina della parte e alla vivace Preziosilla di Annalisa Stroppa qua e là ha fatto difetto il registro acuto. Il Don Carlo di Amartuvshin Enkhbat è rimasto fra color che son sospesi: bella, estesa e ben collocata la voce, inerte l’interprete. Ottima la prestazione del coro diretto dal Maestro Lorenzo Fratini, accettabile il Marchese di Calatrava di Alessandro Spina, migliorabile l’Alcade di Francesco Samuele Venuti, buona la Curra di Valentina Corò e bravissimo Leonardo Cortellazzi come Trabuco.
Gli applausi finali: al centro il direttore d’orchestra Zubin Mehta
Il nuovo teatro del Maggio Musicale Fiorentino a Firenze