
Il ritorno del Falstaff al Maggio Musicale con i lavoratori in palcoscenico per chiedere la sopravvivenza del loro teatro. Ottima ripresa dell’edizione 2021 dell’opera verdiana con l’interessante direzione di Daniele Gatti. La recensione di Fulvio Venturi
di FULVIO VENTURI
È iniziata con i lavoratori del Maggio in palcoscenico a manifestare per la sopravvivenza del loro teatro. Teatro, converrà ripeterlo ancora una volta, la cui importanza non è fondamentale solo per Firenze, ma istituzione culturale fra le più interessanti e vivide nel mondo. A tale riguardo una galleria fotografica dedicata agli anni fiorentini di Maria Callas, che dettero visibilità internazionale al soprano greco con allestimenti quali Norma e Lucia di Lammermoor, Orfeo di Haydn e Armida di Rossini, allestita in teatro da Paolo Klun e Giovanni Vitali nel centenario callassiano e visitabile in queste giornate, è una delle molte testimonianze.
Dunque si abbandonino le visioni localistiche, la caccia alle streghe, e si trovi, una volta per tutte, una dimensione nazionale per assicurare bilanci e funzionamento.
Questo Falstaff è la ripresa della bellissima produzione del novembre 2021.
E se quello fu un Falstaff che ha meritato di entrare nella storia, in ragione della memorabile direzione di John Eliot Gardiner e di un eccellente Nicola Alaimo, questo ne è il degno corollario. Ferma restando la qualità dell’allestimento firmato da Sven-Eric Bechtolf per la regia (scene Julian Crouch, costumi Kevin Pollard, luci Alex Brok-Valerio Tiberi, video Josh Higgason) e qui riproposto da Stefania Grazioli, il motivo di maggiore interesse è dato dalla direzione di Daniele Gatti con una visione piuttosto cupa dell’ultimo capolavoro verdiano, dove diremmo che la vecchiaia prevalga sulla gioventù, e non per burla. Una straordinaria capacità di analisi e al tempo stesso, parafrasando il Boito librettista, di “guardare avanti”. Sicuramente con il Falstaff di Daniele Gatti inizia il Novecento e il concetto non è sbagliato. Falstaff, si ricordi, nasce pur sempre dopo Manon Lescaut, Cavalleria rusticana e Pagliacci. Una lettura dunque asciutta, forse dura, con pochi spazi per i momenti lirici ed una teatralità che è lasciata più alla comunicativa degli interpreti vocali che alla scorrevolezza della narrazione.
In palcoscenico Michael Volle, messo a contratto dal Maggio quale Hans Sachs negli abortiti Maestri Cantori, è stato rivestito dei panni di Sir John Falstaff. Protagonista eccellente, dal fraseggio vario e sfumato, dalla inappuntabile applicazione professionale. Talvolta l’emissione risulta un po’ “bianca”, ma il personaggio c’è tutto. Suo contraltare e a nostro avviso elemento prevalente della serata, Markus Werba. Voce lirica e sonora, dizione pressoché perfetta – e tutti sappiamo quanto valga la parola cantata sia per Verdi che per Boito – dominio della parte e del giuoco scenico per uno dei migliori Ford che io ricordi. Molto musicale il quartetto femminile formato da Irina Lungu, Alice, Claudia Huckle, Meg, Adriana Di Paola, Quickly, Rosalia Cíd, Nannetta, con qualche limite di peso vocale nelle prime tre e della incantata sospensione nella invocazione agli spiriti del bosco nella quarta. Matthew Swenden, un Fenton più maturo che giovane, e Christian Collia, un Cajus acido come si deve, già presenti nel precedente Falstaff, hanno completato il cast insieme con gli ottimi Oronzo D’Urso e Tigran Martirossian, Bardolfo e Pistola. Sempre impeccabile l’orchestra e il coro diretto dal Maestro Lorenzo Fratini.
Applausi per tutti. Viva il Maggio e andare avanti.