Nino Rota e “Il cappello di paglia di Firenze”, un’opera immersa nelle sonorità novecentesche (con un articolo del critico Fulvio Venturi)

“Il cappello di paglia di Firenze” di Nino Rota sta per arrivare nei teatri Verdi di Pisa, Goldoni di Livorno e Giglio di Lucca. Un progetto LTL Opera Studio 2016, con il nuovo allestimento del Teatro di Pisa, coproduzione dei teatri di Lucca, Livorno e Pisa. Al pisano Teatro Verdi, l’opera sarà in scena l’11 e il 12 febbraio 2017 (rispettivamente alle ore 20.30 e alle ore 16) mentre il 10 febbraio alle 16 è prevista la promozione per le scuole. Al Goldoni di Livorno, “Il cappello” arriva il 17 febbraio alle ore 20.30 e il 19 alle ore 16.30. Al Giglio di Lucca l’appuntamento è in marzo: il 4 alle ore 20.30 e il 5 alle ore 16. Direttore Francesco Pasqualetti, regia Lorenzo Maria Mucci, con l’Ogi Orchestra Giovanile Italiana.

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di FULVIO VENTURI –

“Il cappello di paglia di Firenze” è una delle poche opere del secondo dopoguerra che abbiano saputo conquistarsi un posto abbastanza stabile nel repertorio e nel favore del pubblico. Scritta come divertissement nell’estate 1945 l’opera vide la luce solo dieci anni più tardi (21 aprile 1955, Teatro Massimo di Palermo) conoscendo però subito un franco successo. Il segreto di tale affermazione risiede a nostro avviso nel soggetto, mutuato direttamente da Nino Rota (nella foto grande sopra il titolo) con l’ausilio della madre Ernesta Rinaldi dal fortunatissimo vaudeville “Un chapeau de paille d’Italie” di Eugène Labiche (1851), cui il musicista niente ha tolto della leggerezza e della speditezza della narrazione.

Una simpaticissima commedia degli equivoci dove le scene, tutte perfettamente tagliate secondo incastri esilaranti, dimostrano l’intelligenza sia del musicista che del drammaturgo. “Il cappello di paglia di Firenze” guarda tanto a quel momento dell’opera buffa italiana dove lo schema matematico rossiniano si stempera nel lirismo di Donizetti, quanto all’operetta francese di Offenbach. Dovessimo indicare un modello preciso non esiteremmo a citare il brio e lo stile di Don Pasquale da un lato e magari, guardando oltralpe, ai ritmi un poco ossessivi, ripetitivi e senza dubbio caricaturali della Belle Hélène. Non vi è un attimo di stasi, infatti, in questa asciuttissima partitura, né cadute di stile o d’interesse. Se Rota uccide il chiaro di luna della melodia, lo fa senza annoiare e anzi resuscita le cellule melodiche in contenute oasi liriche, istantanee e brevi, che ricordano quelle dei due innamoratini del Falstaff verdiano. Né si perde, in quest’opera, l’ironia primigenia e il gusto del paradosso presenti nel vaudeville. Per quanto siano tratteggiate “alla moderna”, anche nelle parti vocali, abbondantissime, è possibile riconoscere stilemi del melodramma pregresso.

Fadinard è un tipico tenore di grazia con certe aperture liriche endemiche dei “mezzo-carattere”, dunque si ritrova in questo personaggio un po’ del Conte d’Almaviva, di Nemorino, d’Ernesto e persino del Fenton verdiano. Nonancourt, sanguigno e caricaturale, vagamente tronfio dell’opulenza borghese, fa pensare alla mai estinta progenie dei bassi buffi con una presenza sonora che sia però tipica del basso verdiano. Ogni volta che pronuncia il suo fatidico “Tutto a monte” l’immaginazione vola alla dirompente entrata di Ochs nella camera della Marescialla sua cugina in mezzo al primo atto del Cavaliere della Rosa, “Selbstverständlich empfängt mich Ihro Gnaden”. Dei due baritoni, impossibile non ricoscere in Emilio, un azzimato ufficiale, i tratti di Belcore, mentre Beaupertuis, il marito cornuto, sospettoso, indagatorio, ha molto dei “mornes” cisalpini, uso Albert nel Werther.

Fra le parti femminili, Elena, con il suo candore e la sua virginale trepidazione, rimanda direttamente alla Lauretta dello Schicchi e alla Nannetta del Falstaff (ed ecco il paio con il Fadinard-Fenton) con qualcosina dei soprani larmoyants che Massenet chiama “dugazon” in onore di una cantante settecentesca; Anaide ha tratti di maggiore opulenza vocale (un po’ Alice Ford) ma anche di minore definizione tipologica: tutto sommato è un soprano lirico. La Baronessa, mezzosoprano, ha qualche lampo delle grandi “amorose”, inquiete e colpevoli, tipo la Principessa di Bouillon nell’Adriana Lecouvreur, oppure Fedora. C’è spazio anche per un tenore caratterista, Lo zio Vézinet, sordo spaccato, sospeso fra lo Scrivano della Kovantschjina e i tre servitori dei Racconti di Hoffmann. Infine il coro, che ha una parte molto impegnativa dal lato ritmico e dal lato mnemonico, ironicamente occhieggiante “all’interminabile andirivieni” del Don Pasquale e anche al “can-can” dell’Orphée aux Enfers.

Tanta scansione ritmica, tanta velocità narrativa, tanto senso della caricatura e della macchietta, si fondono in un’orchestrazione doviziosa dove il colto Nino Rota trasfuse anche il suo raffinato sapere di strumentatore. Lavoro duro per il direttore disciplinare le sonorità novecentesche con occhio febbrile ad un lavoro in palcoscenico che non conosce stasi. Non a caso il “creatore” del “Cappello di paglia” fu un grande della bacchetta, Ionel Perlea.

One thought on “Nino Rota e “Il cappello di paglia di Firenze”, un’opera immersa nelle sonorità novecentesche (con un articolo del critico Fulvio Venturi)

  • Avrebbero anche potuto invitarmi ad una conferenza stampa di presentazione…..io che ho conosciuto così bene Nino Rota e che so bene come desiderava fosse eseguita la sua opera….. e quanto insistette perchè gliela eseguissi !!!!!! Oltre all’incisione presi parte alle esecuzioni di Treviso e a quella del Gran Teatro del Liceo di Barcellona………ma il mondo va così…….

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