“Adriana Lecouvreur” al Carlo Felice di Genova con Valerio Galli sul podio. L’intimismo di Barbara Frittoli (prima rappresentazione). Il cast della replica, con Amarilli Nizza e Fabio Armiliato. Terzo cast con Valentina Boi e Gianluca Terranova. La recensione di Fulvio Venturi (con una nota su Cilea)

di FULVIO VENTURI

Ho visto molte volte “Adriana Lecouvreur” di Francesco Cilea in teatro e da tanti anni, così da mettere insieme nel mio bagaglio critico una galleria di prime donne, una fra tutte Magda Olivero. E così di direttori d’orchestra, alcuni di questi straordinari per vitalità e cultura, da intendersi come conoscenza della materia, ovvero “Adriana Lecouvreur” e il periodo storico, sociale e musicale in cui quest’opera vide la scena, che è l’inizio del Novecento.

Spesso le produzioni cui ho presenziato si sono risolte in grandi impennate da parte delle prime donne più o meno celebri che rivestivano i panni della protagonista, ora secondate da vibranti antagoniste – le interpreti della Bouillon – nei due atti centrali, da squillanti innamorati tenorili, oppure da toccanti artisti di voce baritonale.

Da parte dei direttori d’orchestra ho invece rilevato con frequenza la volontà di dare sangue ad una partitura che non urla, ma che è di sana costituzione, oppure di secondare, sia pure con tutta la classe di questo mondo, le necessità della suddetta prima donna.

All’opposto mai mi era capitato di assistere ad una lenta ma sicura costruzione della tragedia come in questo caso.

Il concorso primario risiede nell’inconsueto carattere che Barbara Frittoli conferisce ad Adriana. Il suo è un personaggio costruito più su fini declamazioni, su rattenute emozioni, sulla misura e sulla eleganza che sullo “spolvero” della consumata attrice teatrale. Nell’attitudine di Barbara Frittoli non si troveranno i celebri scuotimenti di tenda e le plateali cadute da applauso, pure incontestabili in un documento del teatro Liberty come questo. Persino nel passo più ardente dell’opera, il monologo di Fedra, “detto” da lei, l’invettiva si unisce al dolore più che allo sdegno e i fiati, le cesure, i silenzi che interrompono il declamato, stabiliscono e tensione e interpretazione. Il quarto atto di Barbara Frittoli poi si svolge tutto fra lancinanti sospiri, fra cadute psicologiche e momentanei risvegli, gioie represse e abbandoni mortali. Muore sola la sua Adriana, non confortata dall’amore, dalla pietà e neppure dall’arte. Un’interpretazione straordinariamente moderna, contemporanea, originale che può solo essere condivisa.

Valerio Galli, dal podio, oltre a sostenere la cantante, spartisce con essa il pensiero interpretativo, sovente contenendo le dinamiche senza perdere in intensità. Questa “Adriana” è come un lungo epicedio, una costruzione nota per nota della catarsi finale. Una lettura insolita, innovativa, nella quale si è ben inserito anche il personaggio di Michonnet creato da Devid Cecconi, il quale ha dimenticato i patetismi spesso lacrimosi della tradizione, per dare vita ad un uomo innamorato, per niente senile, che si consegna al ruolo subalterno sublimando i propri sentimenti.
Non così è stato per Marcelo Alvarez che invece ha presentato un Maurizio esteriore sia dal lato vocale (qui anche con qualche pecca specialmente nel secondo atto) che scenico e che solo nel quarto atto si è unito alla visione intimistica generale.

Solida vocalmente Judit Kutasi, la Principessa di Bouillon, ma qualcosa della vena antagonistica del personaggio deve maturare.

Molto bene Didier Pieri nei panni dell’Abate di Chazeuil, carattere di alta specializzazione. Pieri è rifuggito da quegli atteggiamenti caricaturali spesso di maniera che soffocano questo personaggio, cantando la parte con levigata vocalità, con eleganza e misura, sia nei numerosi passi concertati che nei concitati momenti del secondo atto e nei languori settecenteschi del terzo. Una buona voce ha dispiegato anche il basso Federico Benetti, il Principe di Bouillon, ma in quella parte l’articolazione della parola cantata deve essere più sciolta. Bene infine il quartetto degli “attori”, tutti realmente esistiti al pari di Adrienne Le Couvreur e degli altri personaggi dell’opera di Francesco Cilea, ovvero M.lle Jouvenot, M.lle Dangeville, Poisson, Quinault, interpretati rispettivamente da Marta Calcaterra, Carlotta Vichi, Blagoj Nakoski, John Paul Huckle. Il cast è stati completato dal Maggiordomo di Claudio Isoardi e una nota di merito va al Coro preparato dal maestro Francesco Aliberti. La coreografia di Michele Cosentino era animata dai danzatori Michele Albano, Ottavia Ancetti, Giancarla Manusardi.

L’allestimento firmato interamente da Ivan Stefanutti per regia (assistente Filippo Tadolini), scene e costumi, e prodotto dall’Associazione Lirica Concertistica Italiana (As.Li.Co) è ormai un classico e gira di teatro in teatro ogni qual volta l’opera di Cilea sia in cartellone con gradimento del pubblico.
La produzione genovese è dedicata alla memoria di Mirella Freni, la grande cantante che fra le molte opere del suo repertorio ebbe anche “Adriana Lecouvreur”.

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Due parole su Francesco Cilea e su “Adriana Lecouvreur” per favorire l’approfondimento su autore e opera.

Cilea nacque a Palmi nel 1866 in una famiglia altoborghese. Il padre era Giuseppe era avvocato e la madre, Felicita Grillo, aveva origini nobiliari. Fin da piccolo mostrò inclinazione per la musica, in un primo tempo ricevendo lezioni di pianoforte dalla zia Eleonora, sorella della madre e poi dal direttore della banda di Palmi, Rosario Jonata. Su sollecitazione del medico di famiglia il piccolo Francesco fu poi ascoltato da Francesco Florimo, già intimo amico e biografo di Vincenzo Bellini, e allora celeberrimo bibliotecario del Collegio di Musica di Napoli, il quale consigliò la famiglia Cilea d’iscrivere il bambino al Conservatorio. Fu così che, superati gli esami, Francesco Cilea entrò al Conservatorio di San Pietro a Majella, Napoli. 

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Durante gli studi dimostrò una spiccata ammirazione nei confronti della musica di Vincenzo Bellini. Nel 1887, a coronamento del corso di studi, i dirigenti del Collegio di Musica consegnarono a lui il libretto di un melodramma idilliaco in tre atti, “Gina”. Sarebbe stata quella la prova finale valida come licenza. “Gina” fu eseguita al Collegio nel 1889 e riscosse l’attenzione della critica napoletana. Francesco Cilea, dunque, notato dall’editore Sonzogno, tentò la via del teatro verista con “La Tilda”, melodramma in tre atti di Angelo Zanardini. Erano gli anni che immediatamente seguivano l’affermazione di “Cavalleria rusticana”. “La Tilda”, che fu eseguita al Teatro Pagliano di Firenze nel 1892 piacque e pur senza destare soverchio entusiasmo, si aprì per lei una non disprezzabile circolazione teatrale. Diremmo che l’affermazione giunse a Cilea con un raffinato, se non proprio vitalissimo, esempio di Literatur-Oper, “L’arlesiana”, riduzione a plot operistico di Leopoldo Marenco della novella tragica “L’arlesienne” di Alphonse Daudet. L’opera fu rappresentata nel 1897 al Lirico di Milano con il giovane Enrico Caruso nei panni dell’ossessionato Federico e rivista poi in diverse occasioni. Ed eccoci dunque al 1902, anno in cui Cilea colse la definitiva affermazione con “Adriana Lecouvreur”. La trama dell’opera si riferiva ad un oscuro episodio parigino occorso nel 1730: la morte improvvisa della notissima attrice della Comédie Francaise, Adrienne Le Couvreur. Fra le varie ipotesi che furono fatte ci fu quella di un avvelenamento per mano della duchessa Louise de Bouillon, amante segreta del conte Maurice de Saxe il quale aveva una relazione piuttosto nota con l’attrice. Tutto finì in una bolla di sapone, ma del fatto si parlò molto anche e soprattutto grazie a Voltaire il quale, da amico devoto della Le Couvreur, lasciò un’appassionata memoria del trapasso dell’attrice.

E’ però tramite d’Eugène Scribe e d’Ernest Legouvé i quali scrissero nel 1849 una fortunatissima commedia in sei atti sulla vicenda che, dopo aver conquistato la scena parigina, fece poi il giro di tutta Europa e giunse in Italia. Commedia ricca di particolari, dove figurano con peculiare precisione i personaggi reali, attori, nobili, militari e politici, che ruotarono attorno ad Adrienne nel periodo che precedette la sua fine. Commedia concepita per fare rifulgere il valore scenico ed interpretativo della protagonista. Il libretto di Arturo Colautti che fu musicato da Cilea altro non è che una diligente riduzione della “comédie” di Scribe e Legouvé.

“Adriana Lecouvreur” andò in scena al Teatro Lirico di Milano, roccaforte di Casa Sonzogno, il 6 novembre 1902 con un esito tanto felice da fare epoca. Enrico Caruso anche in questa occasione trascinò tutti al successo e della sua prestazione si parlò favolisticamente per decenni; ma insieme a lui, sotto una bacchetta di estremo valore quale quella di Cleofonte Campanini, agirono altri fuoriclasse come la protagonista Angelica Pandolfini ed il baritono Giuseppe De Luca, un forbitissimo e patetico Michonnet.

Per un decennio “Adriana” fu tra le opere più rappresentate al mondo, poi seguì una leggera flessione esecutiva. Ma nel 1930, dopo una revisione neppure troppo marcata di Cilea, l’opera ha ripreso il suo cammino diremmo ininterrottamente e ancor oggi si rappresenta con frequenza e gradimento.

Conosciamo la sua storia, ove sia possibile sono necessari quattro fuoriclasse: Adriana, Maurizio, Pricipessa di Bouillon, Michonnet. Ne aggiungerei un quinto, nel genere di caratterista, l’Abate e personalmente senza un Principe che sappia parlare cantando (ho sempre pensato che Cilea con questa parte abbia voluto riguardare al “basso parlante” di scuola napoletana) quest’opera non mi pare proprio la stessa. Poi, è ovvio, “Adriana Lecouvreur” è legata da sempre alla figura eponima. E qui appassionati e nostalgici si accalchino: da Magda Olivero a Montserrat Caballé, da Giuseppina Cobelli a Clara Petrella, da Marcella Pobbe a Leyla Gencer, da Carla Gavazzi a Renata Tebaldi, da Raina Kabaivanska a Maria Chiara, da Renata Scotto a Mirella Freni. E sicuramente sarò incappato in qualche omissione. Ma dunque si ricordi una cosa: “Adriana Lecouvreur” è opera da interpretare, ma soprattutto da cantare.

Abbandonato il progetto di mettere in musica la “Francesca da Rimini” dannunziana, del quale rimane un carteggio, Francesco Cilea compose “Gloria”, un drammone medievale che lo stesso Arturo Colautti redasse attingendo ispirandosi più o meno chiaramente a “Haine” di Sardou (cui guardò anche Mascagni senza farne di nulla) e “Monna Vanna” di Maeterlick (poi musicata non male da Février). “Gloria” però non piacque nel 1907 quando andò in scena alla Scala, né piacque successivamente all’occasione di sporadiche riprese e di revisioni anche ampie effettuate dall’autore. Cilea allora si dedicò all’insegnamento giungendo ai massimi livelli ministeriali non senza però lasciarci qualche piacevole pagina di musica da camera e una “Ode sinfonica” in memoria di Giuseppe Verdi (1913) su testo di Sem Benelli.

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Seconda rappresentazione di “Adriana Lecouvreur” al Carlo Felice con cast alternativo (giovedì 13 febbraio 2020)

Fabio Armiliato

Un totale avvicendamento dei cantanti nelle parti principali ha caratterizzato la seconda rappresentazione, durante la quale Amarilli Nizza ha interpretato Adriana, Fabio Armiliato Maurizio, Alberto Mastromarino Michonnet e Giuseppina Piunti la Principessa di Bouillon. E’ stata una recita di minore eleganza rispetto alla prima, dove però si è giunti alla catarsi finale con intensità. Un quarto atto di notevole intensità ha infatti riscattato le pecche che durante la serata non abbiamo potuto emendarci dal rilevare. Di Amarilli Nizza (immagine sopra il titolo: tutte le foto della seconda rappresentazione sono di Marcello Orselli) ricorderemo il crescendo che ha caratterizzato la sua prestazione, così come di Alberto Mastromarino l’umanissimo tratteggio riservato a Michonnet. Di più difficile analisi la prestazione di Fabio Armiliato, talvolta salutato dai generosi applausi del pubblico di casa anche a scena aperta, ma che tuttavia ha dato segni di fatica vocale durante l’intera serata; a tale osservazione si aggiunge purtroppo anche una valutazione insufficiente della prova di Giuseppina Piunti (foto in basso: Giuseppina Piunti in scena con Fabio Armiliato).

65 principessa di bouillon ( g. piunti ) maurizio di sassonia ( f. armiliato )

Gli altri componenti del cast hanno ripetuto la buona prestazione della sera precedente e Didier Pieri è parso addirittura in progresso rispetto all’ottima qualità già dispiegata durante la “prémière”.

A riprova di una maturità anche tecnica raggiunta da Valerio Galli abbiamo notato che mutando gli interpreti è anche mutata leggermente la sua lettura. Rimane in atto la delicata costruzione della tragedia, ma con leggero incremento della sonorità e della speditezza nei passi orchestrali.

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Venerdì 14 febbraio 2020 abbiamo assistito anche alla terza rappresentazione che pure proponeva una diversa e nuova coppia protagonistica.

Valentina Boi, giovane soprano livornese in ascesa, ha assunto la parte di Adriana che aveva già affrontato circa un anno fa al Filarmonico di Verona. I suoi momenti migliori sono emersi dai passi sussurrati dove ha potuto fare ricorso ad un apprezzabile legato. Nel declamato invece, a nostro avviso, il suono deve trovare una proiezione diversa e anche l’interpretazione globale può diventare più meditata, scaltrita, profonda, vorremmo dire persino meno spontanea, poiché siamo comunque di fronte ad una grande attrice, ad un personaggio che viveva nel teatro e che nell’opera di Cilea, nella sortita, nell’ingresso nel villino della Grange-Batélière, nella scena-madre del terzo atto, teatralmente di pone e, nel vaneggiamento finale, in teatro muore. 

Credo che per Gianluca Terranova invece si trattasse di un debutto assoluto nel personaggio di Maurizio. Il tenore romano ha acquisito sicurezza nel corso della serata e ha firmato un quarto atto di gran livello. Abbiamo anche apprezzato la tendenza dimostrata in tutta la serata di rendere al Conte di Sassonia uno stile di canto nobile, fatto di mezze voci, di suoni dolci anche nel registro acuto, sul modello di antichi e storici interpreti quali Beniamino Gigli, o Giuseppe Anselmi, pur mantenendo lo squillo naturale della voce.

Nel corso dello spettacolo, infine, abbiamo nuovamente apprezzato lo Chazeuil di Didier Pieri, corretto nel canto, musicale e insinuante, il bellissimo Michonnet di Devid Cecconi e l’intensa concertazione del maestro Valerio Galli.

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