Pietro Mascagni: così nacque “Cavalleria rusticana”. Genesi e aneddoti dietro le quinte di un capolavoro

di FULVIO VENTURI –

Nel 1887, dopo aver lasciato il conservatorio, Mascagni si ritrovò al servizio della compagnia Cirella, che allestiva operette, come direttore d’orchestra. In questa veste egli raggiunse il meridione, poi, passato alla compagnia Maresca con una diaria di dieci lire, arrivò a Cerignola, vasto centro agricolo del Tavoliere di Puglia. Nella cittadina pugliese gli fu offerta da parte del Sindaco la possibilità di un lavoro stabile, una posizione che sarebbe stata retribuita dignitosamente, assumendo la direzione della filarmonica locale. Mascagni (nella foto grande, verso il 1890), che nel contempo si era unito ad una ragazza parmigiana, Argenide Marcellina Carbognani (detta Lina), dalla quale aspettava un figlio, accettò. Con Maresca volarono parole grosse e lo stesso musicista, anni dopo, rievocando quei fatti, scrisse:

“ – Un giorno [Maresca] mi chiamò sul palcoscenico per dirmi che avevo torto ad abbandonarlo, che fra pochi giorni si sarebbe andati in Sicilia, e io facevo male a dar retta ai consigli di falsi amici. Ora non so come andasse: fatto sta che alle mie risposte replicò straordinariamente eccitato, si montò, s’infuriò e finimmo con delle legnate, di cui porto ancora i segni sul braccio. Volli reagire, ma gli artisti della compagnia entrarono nel mezzo e mi condussero alla farmacia per farmi medicare. Poco mi garbava questo sbrigativo sistema di persuadere la gente a rinnovare un contratto, e mi considerai ragionevolmente sciolto da ogni impegno. – ”

Dopo tale diverbio Pietro accettò la proposta la del Sindaco e Lina dette alla luce un bambino, che nacque nel mese di maggio, ma che sopravvisse solo quattro mesi. I due giovani provarono un dolore profondo. Quel dolore, tuttavia, recò profondi cambiamenti nella vita di Mascagni, che il 7 febbraio 1888 si unì in matrimonio con Lina. Nel mese di aprile, con un’orchestra di giovani da lui formata, fece eseguire una sua Messa nel duomo di Cerignola. Il lavoro, riproposto anni dopo, quando egli aveva ormai conquistato la celebrità, prese il nome di Messa di Gloria (in Fa magg.).

Nell’ottobre 1888 Pietro Mascagni, dopo aver letto la notizia su un quotidiano, decise di partecipare al concorso indetto dalla Casa musicale Sonzogno di Milano, per un’opera in un atto e quell’opera sarà Cavalleria rusticana (a lato un bozzetto di scena). Iniziò la composizione il 4 gennaio 1889 appena ricevuti per via epistolare i primi versi da Giovanni Targioni Tozzetti. Il musicista, trovandosi in difficoltà perché avrebbe avuto bisogno di un buon pianoforte che non poteva acquistare, si rivolse ancora ad un familiare. Questa volta fu la zia Maria, di San Miniato, a mandargli un vaglia da 150 lire con il quale Mascagni riuscì nel suo intento. La genesi di Cavalleria rusticana fu poi invigorita nella notte del 3 febbraio 1889 dal lieto evento della nascita di Domenico, il bambino di Lina e Pietro, subito chiamato affettuosamente Mimì, in onore del sindaco di Cerignola, don Domenico Cannone. La composizione dell’opera, per quanto marciasse speditamente, soffriva nondimeno delle insicurezze del suo giovane ed inquieto autore, il quale, una volta ultimato il lavoro, fu assalito da dubbi talmente forti che quasi lo indussero a desistere dall’inviare la partitura al vaglio della giuria. Fu la moglie, con una decisione felicissima, a spedire la partitura a Milano in una giornata terribile di pioggia e di vento.

Come abbiamo visto il testo da mettere in musica giunse a Mascagni, che si trovava a Cerignola distante circa mille chilometri da Livorno, dove invece risiedevano i suoi collaboratori letterari Giovanni Targioni Tozzetti e Guido Menasci, tramite una fitta rete epistolare. In massima parte i firmatari delle lettere furono Mascagni e Targioni Tozzetti e per nostra fortuna il corpus epistolare è giunto fino a noi nella sua quasi totale interezza, tanto da costituire un’imprescindibile fonte documentaria. Il primo contatto tra i due personaggi, che avvenne il 26 ottobre 1888, ci avverte dell’intenzione di Mascagni di mettere in musica un argomento tratto dal romanzo Marito e sacerdote di Misasi, così come della entità dei premi stabiliti per le opere vincitrici del Concorso Sonzogno (3000 lire alla prima classificata, 2000 alla seconda, il solo “beneficio dell’esecuzione” alla terza, 1000 euro al miglior libretto), nonché dei membri della commissione giudicatrice. I primi versi giunsero a Mascagni il 4 gennaio 1889 ed essi riguardarono la “romanza del soprano”, la “sortita del carrettiere, forte, originale”, nonche il “primo coro” (l’attuale “Gli aranci olezzano”). I primi brani ad essere musicati furono la sortita del carrettiere (“Il cavallo scalpita”) e l’introduzione musicale al suddetto “primo coro”. In questa lettera Mascagni fa sapere ai suoi collaboratori che “riuscirà arditissimo, se […] sarà mantenuta la fedeltà al lavoro originale”, aggiungendo un apprezzamento al lavoro che ha ricevuto “Bravi! Bravi! – Versi bellissimi”, per chiudere la lettera con entusiastico “Riusciremo!”. Parole profetiche.

Un mese più tardi (3 febbraio 1889, il giorno in cui nacque Domenico) Mascagni aveva messo in musica tutti i versi ricevuti, e di questo ringraziava Giovanni Targioni Tozzetti e Guido Menasci, ma in quindici giorni egli era a chiedere ai due poeti una serie di cambiamenti, suggerendo dei versi che poi troveremo uguali nella versione finale dell’opera (“Viva il vino ch’è sincero”, ad esempio). Lettera molto interessante questa del 18 marzo 1889, fondamentale per la conoscenza di Cavalleria, poiché c’informa che Mascagni individuò il nodo emotivo dell’opera nella frase “A te la mala Pasqua” e che, riguardo al finale, il pur fascinoso esodo corale situato dopo l’esplicitarsi del fatto di sangue, meditato direttamente dal teatro greco, non poteva reggere l’impatto dato dall’enfasi declamatoria del tragico grido “Hanno ammazzato compare Turiddu” (in alto a destra la cantante Gemma Bellincioni e, a sinistra, la copertina della “Cavalleria rusticana” in dischi per grammofono La Voce del Padrone).

Da una tardiva testimonianza di Giovanni Targioni Tozzetti, invece, apprendiamo che anche la scena della sfida tra Turiddu ed Alfio subì profonde modificazioni. I versi della prima stesura seguivano una forma tipicamente ottocentesca ed erano questi:

Alfio:
La donna egli mi prende
che fede a me giurò,
ei nell’onor mi offende
ed io lo ucciderò!

Turiddu:
L’ira che il cor m’accende
in lui saziar potrò
ei Lola mi contende
ed io l’ucciderò!

Lola:
Mio Dio, perduta sono,
di me che mai sarà?
non merito perdono
non meritò pietà

Il Coro:
Della santa giornata
la pia serenità
dell’ira funestata
nel sangue finirà

(Alfio e Turiddu escono precipitosi, seguiti da alcuni del Coro.)

SCENA ULTIMA

Lola, parte del Coro, poi Santuzza

Lola (con grande angoscia:)
Alfio, Turiddu… rapidi fuggono…
Ahimé, l’insulto tremendo fu.
Pria di partire, li ho visti mordersi…
O l’uno o l’altro non torna più!

Il Coro:
Per te, spergiura, per te si armarono…
Certo l’insulto tremendo fu.
Nel tristo abbraccio come si strinsero…
O l’uno o l’altro non torna più
(mentre Lola e il Coro si avviano, si odono alte grida e Santuzza entra correndo, convulsa)

Santuzza:
Turiddu è morto!… Turiddu è morto!…

Il Coro (mentre Lola fugge, s’inginocchia):

Perdona, del Cielo Signore,
perdona l’offeso uccisore
e l’anima del peccatore
accogli con alta pietà!

Targioni Tozzetti, infine, c’informa anche che Mascagni scriveva ai suoi librettisti press’a poco così:
“ – Ho ricevuto le ultime scene di Cavalleria e, se credete che non si possa far meglio, le musicherò parola per parola, come me le avete mandate. Però, se vi fosse possibile, vorrei che l’opera non finisse senza qualche nota patetica, affettuosa, che quasi attenuasse l’odio feroce del marito offeso e facesse apparire Turiddu meno cattivo verso la povera Santuzza. Forse sarebbe bene che Lola, causa di tanti guai, sparisse dalla scena subito dopo le parole di Alfio che respinge il vino offertogli da Turiddu. Certo non musicherò l’ultima quartina del Coro. L’opera, dopo una breve pausa, deve finire col grido non musicato: – Hanno ammazzato compare Turiddu! – ”

E i librettisti, convinti delle buone ragioni di Mascagni, aggiunsero le brevi parole di Turiddu e Alfio: – Lo so che il torto è mio… L’Addio alla Madre, che divenne una delle pagine più belle dello spartito, e chiusero il dramma lirico come voleva il Maestro.

Il 26 maggio 1889 l’opera fu ultimata e Mascagni (nella foto a destra la copertina di un’incisione della Philips con Placido Domingo, direttore d’orchestra Georges Prêtre), memore degli aiuti che aveva ricevuto, dedicò il suo lavoro al conte Florestano de Larderel. Dopo un febbrile lavoro di rifinitura, compresa l’apposizione del motto PAX sulla partitura e sulla sua riduzione per canto e piano, fu spedita alla giuria due giorni dopo. Il plico pesava due chili ed ottocento grammi. “Speriamo che ci frutti kg. 2800 di biglietti da mille” scrisse Mascagni a Giovanni Targioni Tozzetti e Guido Menasci. Ne fruttò molti di più.