“Francesca da Rimini” alla Scala: ispirata e illuminante lettura del direttore Fabio Luisi, mirabolante la scenografia. Ottima la prova del coro maschile

di FULVIO VENTURI

Come già diffusamente annunciato, Francesca da Rimini, l’opera di Riccardo Zandonai, su libretto tratto dalla omonima tragedia che Gabriele d’Annunzio scrisse nel 1901 per Eleonora Duse, è tornata alla Scala (*) dopo un’assenza di 59 anni.

Assenza ancor più inesplicabile se si pensa agli illustri trascorsi di quest’opera sulle tavole del massimo teatro italiano.

Noi abbiamo assistito alla rappresentazione di giovedì 26 aprile 2018 e si deve dire subito che tuttavia Francesca da Rimini è rientrata alla Scala proprio dalla porta principale, tanta è stata la cura che la produzione ha devoluto sia alla parte musicale sia agli aspetti scenici.

Ora, fra i molti problemi da affrontare quando si decide di mettere in scena un’opera complessa come questa, la priorità spetta alla scelta del direttore d’orchestra e alla Scala questo punto è stato risolto brillantemente. Di rado abbiamo riscontrato tanto entusiasmo e anche tanta attenzione alla materia musicale come nella direzione di Fabio Luisi. La partitura di Zandonai ha infiniti motivi d’interesse dei quali i principali risiedono nella dovizia strumentale, nell’uso assolutamente originale e diffuso della melodia, nonché di una particolare coniugazione della lezione wagneriana con la scuola italiana. E tutto deve stare in equilibrio fra sonorità e tensione, in un rapporto esatto. Abbiamo sempre pensato a Zandonai come ad una sorta di Strauss trentino, e questo probabilmente è vero, ma la messa in valore dei repentini e costanti cambiamenti di tempo, dei frequenti ritmi spezzati, del continuo flusso sinfonico, delle aspre dissonanze attuata da Luisi ci hanno fatto guardare avanti, oltre Strauss. E le lunghe scene d’amore tristaneggianti, il vibrare dell’arco negli appassionati a solo della viola, le sospese atmosfere notturne punteggiate dalla luce delle stelle, rischiarate dai riflessi lunari sulla distesa del mare, sicuramente dovute all’ispirato testo dannunziano, e rese da Luisi con rarissima sensibilità, hanno indirizzato questo lavoro italiano del 1914 più che nella direzione dei poemi sinfonici straussiani, già oltrepassati da Salome ed Elektra, verso il Pelleas e Melisande di Schœnberg (di Schœnberg, non di Debussy), la Verklärte Nacht, la Nereide di Zemlinsky, Der ferne Klang di Schreker. In altri termini mai avevamo sentito suonare così « moderno » la partitura di Zandonai, che pure frequentiamo da cinquanta anni e che, nel tempo, abbiamo visto eseguire da celebrati maestri.

Insieme con la illuminante ed ispirata lettura di Fabio Luisi è andata la parte visiva dello spettacolo soprattutto in ragione di quella mirabolante «torre mastra» irta di cannoni e traslucida di metalli, ideata dallo scenografo Lesley Travers, e illuminata magistralmente dal light-designer Fabrice Kebour, che di momento in momento diventava e macchina di guerra e ostello delle passioni. Va da sé che la statuona che caratterizzava altri luoghi dello spettacolo l’avevamo già vista e rivista, e l’aver adagiato Francesca su un gigantesco «Libro di Lancillotto e Ginevra» per tutto il terzo e quarto atto non ci sia parsa una soluzione irresistibile: ricordava persino casa mia, dove si cammina sui libri. Ma quella «torre mastra» è valsa davvero per mille. E ad essa aggiungiamo il biplano abbattuto, rubato dal Vittoriale, che si vede negli atti finali. Inequivocabile simbolo delle imprese di volo di D’Annunzio ed alla relativa ferita la cui guarigione recherà al «Notturno».

Avremmo da ridire qualcosa anche sulla regia di David Pountney e sui costumi di Marie-Jeanne Lecca, perché della fascistizzazione della materia dannunziana non se ne può proprio più, e invece taccio. Lo spettacolo filava e teatralmente questo è un merito.
Ad un livello altissimo, stratosferico, è poi da collocare la prova del coro, e segnatamente della sezione maschile: i reiterati si naturali acuti dei tenori alla frase «Mora! Mora il Parcitade! Mora! Mora» non li dimenticheremo. Faremmo tuttavia torto grande alla sezione femminile se omettessimo di citare i delicati momenti del primo atto («Oimé che doglia acerba è la mia vita», «Per la terra di maggio l’arcadore in gualdana») e l’invocazione alla primavera del terzo. Il maestro Casoni non ha certo bisogno dei nostri elogi, ma questa volta si è superato.

Ed ora il cast degli interpreti vocali.
José Maria Siri ha tratteggiato un‘ottima Francesca, lirica, calda, morbida nel registro centrale e puntigliosa in quello acuto. Forse avremmo avuto necessità di maggior carisma, ma dove non è arrivata l‘interprete, è arrivato Fabio Luisi.
Lo stesso vorremmo dire di Marcelo Puente, ovvero Paolo il Bello, il quale nell‘impasto timbrico e nella prestanza ci ha ricordato Ruggero Bondino, eccellente «Paolo» di tanti anni fa, ma così non è stato, e alcune frasi come «Ma sol vidi una rosa», «Ah non mi muoio, Francesca», «Ti trarrò dov’è l’oblio», da sempre fondamento del personaggio, sono andate perdute nella sonora marea di Zandonai. Rilievo importante è invece giunto da Luciano Ganci nei panni di Malatestino che ha caratterizzato da protagonista le due scene iniziali del quarto atto, quelle più veementi ed espressionistiche di tutta l’opera. Con Ganci citiamo lo «Sciancat» di Gabriele Viviani il quale è uscito con onore dalle pastoie di un personaggio che nella nostra memoria lotta con l’imperitura presenza di Aldo Protti e Giangiacomo Guelfi. Matteo Desole ha reso molto bene, con personalità e ottima voce, una parte piena d’insidie come quella di Ser Toldo, il deus-ex-machina delle nozze per procura fra Paolo e Francesca. Bene anche Costantino Finucci, Ostasio, cui, in qualità di padrone di casa dei Polentani è stato dato vagamente l’aspetto di Giancarlo Maroni, architetto-arredatore del Vittoriale. Continuando la serie positiva ricordiamo le donne di Francesca, ossia Sara Rossini (Biancofiore), Valentina Boi (Garsenda), Diana Haller (Altichiara), Alessia Nadin (Adonella). Bella in scena Idunnu Münch come Smaragdi, la schiava cipriota, ma un po’ leggerina vocalmente per una parte da giocarsi tutta nel registro basso. Di buon livello la Samaritana di Alisa Kosolova nel tenero duetto dell’addio con Francesca. Vagamente sacrificato è parso Elia Fabbian, baritono, in una parte da basso, Il Giullare. Infine ottimo Hun Kim nella doppia parte del Balestriere e del Prigioniero (difficile), nonché Lasha Seitashvili, Il Torrigiano. Questi due cantanti e Sara Rossini sono allievi dell’Accademia Teatro alla Scala. Successo caloroso nonostante talune pertinaci critiche alla partitura da parte di qualche attempato frequentatore del parterre scaligero, per il quale Francesca da Rimini non vale questo, non vale quello. Esterofilia tamen imperat.

(*) Le rappresentazioni alla Scala di Milano dell’opera “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai proseguono fino al 13 maggio 2018.

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