Folgorato dalla “Bohème” di Zeffirelli: così Stefano Vizioli decise che voleva “fare l’opera”. Intervista di Fulvio Venturi al nuovo direttore artistico del Verdi di Pisa

di FULVIO VENTURI

Noto in campo internazionale dopo aver realizzato spettacoli d’opera alla Scala, a Chicago, a Roma, a Philadelphia, a Torre del Lago, Stefano Vizioli è dal gennaio 2017 il direttore artistico del Teatro Verdi di Pisa. Vizioli è inoltre uomo di grande cultura, di notevole esperienza e, vale la pena dirlo, di estrema piacevolezza. Comunicatore aperto e variegato, ha rilasciato a toscanaeventinews.it questa intervista che Fulvio Venturi ha raccolto proprio nel foyer del Verdi.vizioli

Come nasce Stefano Vizioli?
 “Ho avuto una passione infantile per l’opera. A quattro anni ho visto in tv “La Bohème” con la regia di Zeffirelli e in quella occasione ho deciso di “voler fare l’opera”. Dissi a mia madre proprio così e lei, da quel momento, mi ha assecondato. Poi ho iniziato a studiare pianoforte e mi sono diplomato a Napoli, Conservatorio San Pietro a Maiella, con  Tita Parisi, pianista livornese. Al diploma ho portato “le Trentadue variazioni su un tema originale in Do minore per pianoforte” di Beethoven, “Pour le piano” di Debussy e la “Toccata” di Saint-Saens (con una discreta propensione al virtuosismo, ndr). Ottenni il massimo dei voti e la lode. Quindi ho iniziato a respirare una certa aria che si sente solo in teatro lavorando come maestro sostituto, maestro di sala, collaboratore al palcoscenico. In teatro ho fatto di tutto, ho suonato le campane in “Rigoletto”, ho fatto il maestro alle luci, la comparsa, il siparista… sono orgoglioso della mia gavetta”.
 
La prima opera vista in teatro?
 “Un “Barbiere di Siviglia” al Teatro dell’Opera di Roma con Carlo Maria Giulini come direttore d’orchestra e credo Teresa Berganza per protagonista. Ma lo spettacolo che letteralmente mi ha folgorato è stata la famosa produzione di “Alzira” di Verdi con Virginia Zeani, strepitosa, elegante, coloratissima”.
 
E l’avvicinamento alla regia?
 “Come assistente di Pier Luigi Samaritani e di Filippo Sanjust. Con il primo ho avuto la chance di frequentare un repertorio tradizionale ai massimi livelli, lavorando a fianco di artisti come Kraus, Schicoff, la Troyanos, Prêtre, Mehta, la Valentini Terrani, la Freni e Ghiaurov. Sono stato poi aiuto regista di Sanjust a Spoleto per “Platée” di Rameau e, a Innsbruck, per “Orestea” di Cesti: a lui devo veramente molto, l’incontro con lui è stata una folgorazione sulla via di Damasco, mi ha dato le chiavi per capire la contemporaneità del repertorio barocco, che resta un po’ la mia passione”.
 
La prima regia qual è stata?
 “Ho firmato la mia prima regia a Barga: stavo seguendo come assistente il “Demetrio e Polibio” di Rossini, quindi, dopo un corso con Maria Francesca Siciliani, mi è stato affidato “L’impresario delle Canarie”, l’intermezzo giocoso di Metastasio su musiche di Domenico Sarro. E’ seguito un periodo all’Aslico di Milano dove ho messo in scena “Il turco in Italia” e “Il flauto magico”. La prima vera affermazione è giunta nel 1986 alla Rocca Brancaleone di Ravenna: erano presenti grandi architetti come Gae Aulenti e Aldo Rossi a curare le scenografie per gli spettacoli, affiancati a giovani registi. Con Aldo Rossi mi è toccata in sorte una “Madama Butterfly” che per i successivi 24 anni è stata rappresentata ovunque, l’ultima ripresa è stata Roma 2010, mica male come longevità”.
 
Quale dovrebbe essere la qualità più importante per un regista?
 “Senza dubbio il sapersi rinnovare, rimettersi in discussione ogni volta, non sedersi sui successi. Io sono orgoglioso di alcuni miei spettacoli, che sono stati riproposti per decenni sino a diventare degli “evergreen”, ho lavorato alla Scala, a Chicago, a Parigi, ma il rischio è quello d’inserire il pilota automatico e di clonare se stessi. Non si deve mai finire di studiare, di riguardare anche titoli già fatti, perché ci sono sempre nuovi aspetti da considerare, un’evoluzione che si compie, anche dentro noi stessi, e tenersi aggiornato sulle nuove “scoperte” della musicologia. Talvolta le intuizioni musicologiche sono illuminanti, devo molto agli scritti di personalità come Fedele d’Amico e Arrigo Quattrocchi, l’acume dei quali ha sollecitato imprevedibili riflessioni nel mio approccio creativo verso questo o quel testo. Allo stesso modo è importante consultare gli epistolari per comprendere le intenzioni degli autori, i rapporti con i collaboratori, le incertezze, i dubbi, i ripensamenti e le reali volontà che sono emerse durante la composizione di una determinata opera. Ma mi sono rimesso completamente in discussione quando insieme al maestro Aaron Carpenè abbiamo intrapreso percorsi alternativi integrando linguaggi musicali occidentali con forme ed espressioni teatrali di paesi lontanissimi non solo geograficamente ma anche culturalmente. Da queste esperienze di “diplomazia culturale” sono nati “OperaBhutan”, “Japan Orfeo” e “A Cambodian magic flute”: sono stato chiamato da un giornale americano “l’Indiana Jones della lirica”, ma non sono sexy come Harrison Ford purtroppo”.
 
Stefano Vizioli direttore artistico del Teatro Verdi di Pisa. Come è nato il rapporto con questo teatro?
 “Sono molto affezionato al Teatro di Pisa, dove ho lavorato tanto in precedenza come regista ospite. Ho splendidi ricordi qui, negli anni ho allestito al Verdi “Semiramide”, “Il turco in Italia”, “L’Incoronazione di Poppea”, “Acis and Galatea”, “Falstaff”. Il Verdi ha grandi potenzialità per quello che riguarda la messa in scena degli spettacoli, a partire dalle straordinarie dimensioni del palcoscenico. E ha un personale tecnico di gran qualità professionale”.
 
Che cosa si propone Stefano Vizioli come direttore artistico?
 “Integrare i repertori. Avere la possibilità di alternare il belcanto al recitar cantando, il Verdi meno noto e di “galera“ al teatro verista e a quello contemporaneo. Mi piacerebbe mettermi in relazione con i direttori artistici dei teatri vicini per aprire un discorso sulle eccellenze toscane, ovviamente non solo Puccini e Mascagni, che sono molto noti, ma anche allargare il campo a Niccola Tacchinardi e la figlia Fanny Tacchinardi Persiani, ad esempio, e al loro repertorio, a Ranieri di Calzabigi, ad Alfredo Catalani, Luigi Cherubini, Pacini, toscano a tutti gli effetti, nonostante la casuale nascita in Sicilia”.vizioli3
 
Ecco, appunto, il teatro verista. Molti lo biasimano, difficile parlarne oggi. Stefano Vizioli che cosa ne pensa?
 “Adoro Giordano e Cilea anche in virtù del loro legame con la scuola napoletana e con un settecento “rivisitato”. Alcune pagine di “Andrea Chénier” e di “Adriana Lecouvreur” sono assolutamente indimenticabili. Leoncavallo è un autore straordinario e non solo per “Pagliacci”: “Zazà” è un’opera che vorrei riproporre; vi è di tutto, il liberty, la fin-du-siècle, il teatro nel teatro, una bellissima figura di donna come protagonista. Il problema può essere rappresentato dal riavvicinare il pubblico ad alcuni titoli un tempo più popolari ed ormai semisconosciuti. Mascagni ha titoli molto interessanti, oltre la solita “Cavalleria rusticana”. Sono autori che devono essere riavvicinati alla sensibilità del pubblico con scelte meno prevedibili e di facile cassetta”. 
 
E come?
 “Dobbiamo lavorare con la comunicazione: portare l’opera nelle università, fra la gente, aprirla ai problemi del sociale. Come ho già detto in altre occasioni, “credo nel potere di questi tre termini: intrattenimento, educazione, crescita, e faccio mie le parole di Cicerone ‘movere, delectare, docere’: mentre tutti ci aspettiamo andando a teatro di ‘divertirci’, l’aspetto educazionale e la consapevolezza delle potenzialità civili e morali insite nel Teatro sono egualmente vitali per la sopravvivenza di questa forma d’arte: educare nuove generazioni e rafforzare l’identità culturale e civica attraverso il Teatro dovrebbe essere la priorità assoluta di ogni istituzione artistica”.

2 comments

  • Belle domande e belle risposte.
    L’ultima risposta merita una proposta: Gli appassionati, gli addetti ai lavori e gli amanti della cultura in genere dovrebbero proporre il dott Venturi per cori universitari, ma anche presentare progetti nelle scuole superiori e/o stimolare gli stessi corpi docenti a promuoverli. Ricordo poi che “Educazione musicale” esiste anche nelle scuole medie inferiori.
    Lasciar morire le competenze è un delitto.
    Quindi, con Vizioli, dico ‘movere, delectare, docere’, ma non a chiacchiere.

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