Diario di una giornata versiliese: il ricordo dei martiri di Stazzema, l’arte di Nomellini (anche per la lirica) e le melodie di Giacomo Puccini

di FULVIO VENTURI

12 agosto 2017 – Inizio al mattino con il ricordo dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, avvenuto settantatre anni fa. Un numero imprecisato, ma altissimo di civili, forse cinquecentosessanta, trucidati durante un rastrellamento nazista guidato dai fascisti. Fra le vittime tanti bambini insieme con le loro madri, con le loro famiglie. L’orrore di quella giornata vive imperituro nella storia, nelle dignitose parole dei pochi superstiti, nella conoscenza delle armi adottate come i lanciafiamme per attuare lo sterminio. La più giovane vittima, Anna Pardini, di venti giorni, trovata agonizzante dalla sorella maggiore fra le braccia della madre già spirata e morta in seguito, assurge a simbolo innocente di quella strage.

Nel pomeriggio visita alla mostra “Plinio Nomellini – Dal Divisionismo al Simbolismo verso la libertà del colore” al Palazzo Mediceo di Seravezza (fino al 5 novembre 2017). Plinio Nomellini (Livorno 1866 – Firenze 1943) la sua arte, sono per me una sorta di talismano dal 1966. Avevo dodici anni e l’affabulazione, lo stupore, le sensazioni ricevute dall’aver casualmente visitato un’antologica delle opere di questo pittore costituì l’inizio di un cammino di crescita e di conoscenza.

La mostra di Seravezza, ordinata da Nadia Marchioni, intende riportare l’attenzione del pubblico su questo indiscusso maestro del Divisionismo, perlustrandone l’interessante periodo di formazione livornese e fiorentino sotto l’egida prima di Fattori e poi di Lega e Signorini. Quindi osserva, come forse mai prima, l’inserimento di Nomellini in un contesto culturale del quale fecero parte non solo i “toscani” e “livornesi” Kienerk, Müller e Lloyd, ma anche il “romagnolo” Torchi e i “piemontesi” Pollonera e Pellizza da Volpedo, incontrati a Genova.IMG_5843 Nel percorso espositivo è dunque descritta magnificamente l’epopea sociale ed anarchica di Nomellini con quadri di commossa poesia partecipativa quali “I mattonai” (nella foto a sinistra un particolare dell’opera di Nomellini), di tutt’ora dirompente impatto emotivo come “La diana del lavoro”, di stupefacente equilibrio come “Marina ligure”, quest’ultimo tanto bello da valer da solo la visita. E per felicissima scelta dell’ordinatrice nella esposizione è possibile per confronto e documentazione osservare le opere dei maestri e dei sodali di Nomellini. Quindi il periodo di Torre del Lago, con la vicinanza di Puccini, l’appartenza con gli altri “labronici” Pagni e Fanelli al Club della Bohème, e l’incrocio ispirativo con la poesia di Pascoli, D’Annunzio, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi. Ma negli apparati critici della mostra sorprende come sia trattata solo di passata l’amicizia con Pietro Mascagni, non solo concittadino e coetaneo di Nomellini, ma anche importante collezionista del pittore. Con Mascagni e D’Annunzio, per il tramite della Casa musicale Sonzogno, Nomellini siglò in modo indissolubile nel 1913 l’operazione “Parigina”, creando per quest’opera un manifesto (nella foto in basso a destra) che rimane fra gli esiti esemplari dell’arte grafica italiana.FullSizeRender-9 Nomellini, inoltre, illustrò con tre tavole a carboncino anche l’edizione del libretto di “Nerone”, titolo estremo del catalogo mascagnano (1935). La mostra infine concentra l’attenzione, per prima anche in questo, sul periodo finale dell’attività del pittore che, sceverato dalla ideologia politica, reca ad un singolare “quasi” astrattismo coloristico e libero dalla forma per quanto composto e per dirla “tout-court”, interessante, ed alitante fin dal “Notturno” del 1905.
Esposizione molto ben strutturata, anche se l’assenza di opere fondamentali quali “Il fienaiolo”, “La lezione” e la parte sinistra di “Gioia Tirrena” appare nondimeno indubitabile menda, certamente non compensata da altri quadri di meno felice stesura.

Dal Plinio Nomellini versiliese, amico di Puccini, a Galileo Chini, suo vicino di casa a Fossa dell’Abate e strabiliante “creatore” della messa in scena scaligera per la “Turandot” primigenia (1926), il passo è breve, dunque, nel ricordo di quella stagione dorata di musica e d’arte, giunta la sera, ci siamo recati a Torre del Lago.

Qui abbiamo assistito per la seconda volta nella stagione a “Turandot”, in questo caso per recensire avvicendamenti sostanziali nel cast.

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Amadi Lagha (Foto Lumicini / Festival Puccini – Torre del Lago)

La più importante di queste varianti si è verificata sul podio direttoriale ove Vegard Nilsen ha preso il posto di Alberto Veronesi. Difficile banco di prova “Turandot”. Dal collega e presidente del Festival, Nilsen ha rilevato le dinamiche estreme, forse aggiungendo addirittura qualcosa di suo. In taluni passi dell’opera il rapporto con il palcoscenico ed il relativo assieme ne ha sofferto. Tuttavia l’orchestra che conosce l’opera a menadito ha fornito ugualmente una buona prestazione.
In palcoscenico abbiamo apprezzato il Principe Ignoto del tenore Amadi Lagha. Voce lirica, squillo naturale, entusiasmo. Anche se un po’ brado dal lato musicale a prescindere dall’accordo con il direttore, e con una interpretazione tutta da affinare, è stato comunque più convincente di altri colleghi. Dignitosissima anche la principessa Turandot di Irina Rindzuner, sicura nel registro acuto e resistente. Nelle parti principali il cast era completato dal Timur di Alessandro Guerzoni e dalla graziosa, ma evanescente Liù di Angela De Lucia. Particolarmente penalizzato dall’avvicendamento direttoriale è parso il trio delle maschere nel quale il preponderante Ping era impersonato da Raffaele Raffio. Molto bene ancora una volta il coro sotto la direzione del Maestro Salvo Sgrò. Pubblico numeroso e generoso, addirittura premiato da un non richiesto “bis” di Nessun dorma. Per chi ancora non lo sapesse, la regia di questa “Turandot” è stata firmata da Alfonso Signorini con un allestimento sin troppo ordinato e tradizionale.

 

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