Che bell’opera! Il pubblico di Lucca applaude con entusiasmo “Iris” di Pietro Mascagni. Brava la giovane Filomena Fittipaldi (con fotogallery)

di FULVIO VENTURI

Una recita fatata ha chiuso questa coproduzione di Iris che nei mesi di dicembre 2017, gennaio e febbraio 2018, è stata allestita nei teatri di Livorno (nell’immagine sopra il titolo, foto Trifiletti – Bizzi), Pisa e Lucca, dopo essere andata in scena in Giappone, presso Kansai Nikikai Opera Osaka.

Fra presentazioni, «soffietti» e recensioni, la nostra testata ha scritto più volte di questo spettacolo e dunque non staremo a dilungarci sulla regia di Iroki Hihara, che non sempre appare chiara e che inserisce nel tessuto sonoro dell’opera frequenti e fastidiose interiezioni gridate (gli urletti dei suonatori nel teatrino, le risatine prolungate delle guèchas nella casa da tè, gli urlacci dei cenciaiuoli nel terzo atto) ma che ha il merito di coinvolgere lo spettatore, sulla parte visiva eccessivamente didascalica con le citazioni da Hokusai, Mataloni e Hohenstein, e senza dubbio pesante negli ingombranti elementi scenici, ma che genericamente «piace» nei costumi femminili e nei colori, oppure su un certo immobilismo del maestro Agiman.

Questa produzione ha invece il merito, grande, di sfatare un mito negativo: quello della ineseguibilità di Mascagni nei titoli maggiori, dei quali Iris è giustamente vessillifera, a parte Cavalleria rusticana. La produzione infatti si è radicata attorno ad una masterclass che ha dato risultati lusinghieri con la messa in evidenza di un gruppo canoro giovane, al di sotto dei trent’anni, di notevole qualità.

Dicevamo dunque della recita «fatata» di domenica 11 febbraio 2018. Premesso che il maestro Agiman ha firmato la sua miglior prestazione (Orchestra Filarmonica Pucciniana), e che il coro è apparso finalmente à plomb (Ars Lyrica, maestro Marco Bargagna), gran merito del risultato deve essere ascritto a Filomena Fittipaldi. La giovane cantante, che avevamo notato attenta e partecipe durante la masterclass, ha tratteggiato una figura protagonistica elegante, flessuosa, emozionata ed emozionante come deve essere una cantante al debutto, commossa. E non giochiamo sul binomio debuttante-simpatia, Filomena Fittipaldi ha dispiegato inoltre musicalità, aderenza scenica, sicurezza senza cedimenti. Facendo un po’ di letteratura operistica diremo che tal debutto in Iris, tanti tanti fa, era toccato a due cantanti come Carmen Melis e Giuseppina Baldassarre-Tedeschi (Novara 1905). Auguriamo a lei e alle giovani colleghe di questa produzione la stessa illustre carriera. Accanto a lei, Denys Pivnitskyi (27 anni) ha risolto con irrisoria facilità le insidie della tessitura legata al personaggio di Osaka, «spauracchio» tenorile dai tempi di sempre. Non starò ad elencare la sequela d’interpreti che fa parte delle mie memorie di spettatore. Pivnitskyi, come Osaka, se non è il migliore, poco ci manca. Con questo è come se avessi taciuto: la sua carriera è agli inizi, il resto deve tutto venire. Fulvio Fonzi, nella parte del Cieco, mette in campo una vera voce di basso: copiosa, sonora, estesa, morbida e una interpretazione intensa. Ne tengano di conto agenti ed organizzatori: egli è elemento di prim’ordine. Chiara Milini (Una guècha) e Federico Bulletti (nel doppio ruolo del Merciaiuolo e del Cenciaiuolo, con la serenata alla luna nel terzo atto di pura genialità mascagnana) devono attendere una giusta maturazione dei propri mezzi tecnico-espressivi. Un volenteroso Keisuke Otani completava il cast nel ruolo centrale di Kyoto, ma per le necessità della parte ci vuole altro, massime piena disponibilità della parola cantata. Tommaso Tomboloni e Alessandro Manghesi, dalla compagine corale, hanno dato voce alle frasi isolate degli spettrali cercatori di fortuna nel terzo atto.

Applausi a scena aperta e successo entusiastico al termine, suggellato da un pubblico numeroso (era la seconda recita lucchese e numericamente le presenze son parse superiori alla omologa livornese) ed entusiasta nelle cui fila si sussurrava anche la fatidica frase «che bell’opera». Era l’ora.

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